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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2019, n. 43
La contrattazione collettiva e l’espressione dei lavoratori sul luogo di lavoro sono diritti fondamentali ma possono anche essere uno strumento chiave per affrontare la transizione in corso. Quando la contrattazione collettiva riesce a coprire un ampio numero di lavoratori ma lasciando margini per le imprese di adattare le condizioni stabilite nei contratti nazionali alle proprie esigenze, i risultati in termini di occupazione, salari, disuguaglianza ma anche di qualità del lavoro e “resilienza” agli shock macroeconomici sono migliori rispetto ai paesi in cui la contrattazione collettiva è assente o residuale. È questo il messaggio principale di Negotiating Our Way Up. Collective Bargaining in a Changing World of Work, un rapporto appena pubblicato dall’OCSE che fornisce un quadro completo sullo stato di salute delle organizzazioni di lavoratori e imprese e del funzionamento dei sistemi di contrattazione collettiva in 36 paesi sviluppati.
La contrattazione collettiva di fronte a vecchi e nuovi ostacoli
Il rapporto, frutto di oltre tre anni di lavoro, parte da una constatazione: il funzionamento della contrattazione collettiva è minacciato dall’indebolimento generale delle relazioni industriali in molti paesi, dallo sviluppo di nuove forme di lavoro e dalla progressiva individualizzazione delle relazioni di lavoro. Il tasso di iscrizione ai sindacati è sceso di oltre la metà nei paesi dell’OCSE, dal 33% in media nel 1975 al 16% nel 2018. In Italia, questo tasso è diminuito dal 48% nel 1975 al 34,4% nel 2018. La percentuale di lavoratori coperti da un contratto collettivo si è ridotta dal 46% nel 1985 al 32% nel 2017 in media nell’area OCSE. In Italia, invece, la quota di lavoratori ufficialmente coperti da un contratto collettivo è rimasta stabile ed elevata poiché tutti i lavoratori e imprese sono, almeno formalmente secondo l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 della Costituzione, coperti da un contratto collettivo. In pratica, è dimostrato che un numero considerevole di lavoratori è retribuito meno dei minimi tabellari di riferimento.
L’aumento di forme di lavoro atipiche pone sfide aggiuntive alla contrattazione collettiva, in quanto i lavoratori atipici hanno meno probabilità di essere sindacalizzati rispetto a quelli standard. In Italia, i lavoratori atipici hanno una probabilità del 50% inferiore di essere sindacalizzati rispetto ai lavoratori standard. Questo dato, in parte, riflette le difficoltà pratiche dell’organizzazione di lavoratori atipici (che potrebbero temere ritorsioni e/o essere meno legati a un determinato posto di lavoro cambiandolo spesso) e, in parte, il fatto che la contrattazione si è sviluppata storicamente intorno a categorie standard di lavoratori e imprese. Tuttavia, pesano anche alcuni ostacoli legali che impediscono in molti paesi l’accesso alla contrattazione collettiva ai lavoratori autonomi ma che si trovano in una situazione di dipendenza economica (per esempio alcuni lavoratori delle piattaforme) che, secondo un’interpretazione stringente delle norme antitrust, sono da considerarsi imprese e quindi non autorizzate a negoziare collettivamente i propri prezzi. La Commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager ha recentemente aperto alla possibilità di estendere l’accesso alla contrattazione a questi lavoratori ed è possibile quindi immagine che si tratterà di un’area di lavoro che vedrà impegnata la nuova Commissione von der Leyen.
Oltre a un adattamento delle norme comunitarie in materia di concorrenza, una maggior inclusione di lavoratori atipici nella contrattazione collettiva richiede anche un impegno diretto da parte delle parti sociali. I sindacati hanno iniziato ad aprire le proprie strutture a lavoratori atipici e autonomi e hanno cominciato a fare campagne per i diritti dei lavoratori delle piattaforme. Da oltre 20 anni, i sindacati italiani hanno creato categorie specifiche per forme di lavoro atipici (ad esempio i parasubordinati). Inoltre, alcuni accordi collettivi in Italia già includono disposizioni relative a forme di lavoro atipiche.
Ha ancora senso la contrattazione collettiva nel futuro del lavoro?
Secondo il rapporto OCSE, l’indebolimento della contrattazione collettiva e le difficoltà di accesso per i lavoratori atipici rappresentano un problema perché la contrattazione collettiva è in sé uno strumento utile per rispondere alle sfide derivanti dai megatrend che trasformano il mercato del lavoro: digitalizzazione, globalizzazione e invecchiamento della popolazione. Il rapporto contiene numerosi esempi di come la contrattazione collettiva possa aiutare a garantire che tutti i lavoratori e le aziende, anche quelle di piccole e medie dimensioni, beneficino dell’innovazione tecnologica, dei cambiamenti organizzativi e della globalizzazione in corso. La contrattazione, ad esempio, può aiutare a formulare soluzioni a problemi relativamente “nuovi”, come l’uso di strumenti tecnologici (gli accordi in Francia o Spagna sul diritto alla disconnessione ne sono un esempio) o l’equilibrio tra lavoro e vita privata (si veda l’accordo IGMetall del 2018 che ha negoziato maggiore flessibilità per i lavoratori di ridurre il proprio orario di lavoro).
Inoltre, la contrattazione collettiva può integrare le politiche pubbliche nel rafforzare la sicurezza e l’adattabilità del mercato del lavoro, in particolare attraverso il ruolo che le parti sociali giocano nell’anticipazione dei fabbisogni di competenze da parte delle imprese. In Svezia, per esempio, le parti sociali gestiscono i Job Security Councils che servono ad anticipare e gestire la formazione e la transizione dei lavoratori nel caso di chiusure o ristrutturazioni aziendali con tassi altissimi di ricollocamento. Ma anche in Italia ci sono esempi positivi al riguardo. Nel 2016 i sindacati del settore metalmeccanico hanno accettato aumenti salariali inferiori alle attese in cambio del diritto soggettivo alla formazione, cioè un minimo di formazione annuale pagata dal datore di lavoro a tutti i lavoratori, indipendentemente dall’impresa per cui lavorano. Tuttavia, l’implementazione pratica di queste nuove disposizioni è rimasta finora limitata. Anche gli enti bilaterali di formazione sono uno strumento importante e al momento ancora sotto (e non ben) utilizzato per rispondere al bisogno di formazione continua del mercato del lavoro italiano (l’OCSE aveva dedicato un intero rapporto al tema, si veda “Adult Learning in Italy. What Role for Training Funds?”).
Nuove forme organizzative per rappresentare i lavoratori, come cooperative di freelancer o associazioni slegate ai sindacati tradizionali si sono sviluppate in alcuni paesi dell’OCSE e anche in Italia, soprattutto tra i cosiddetti rider. Tuttavia, mentre queste nuove organizzazioni possono facilitare l’aggregazione di lavoratori atipici, esse non possono completamente sostituire i sindacati perché non hanno il mandato legale di contrattare collettivamente per conto dei loro membri. Anche le parti datoriali sono messe alla prova dai cambiamenti in corso nel mondo del lavoro. Nuovi attori come le piattaforme restano fuori dalle forme tradizionali di contrattazione collettiva e rappresentano una sfida anche per le associazioni datoriali storiche che potrebbero vedere il proprio ruolo messo in discussione.
Quale ruolo per Governi e parti sociali di fronte a queste sfide?
Nonostante le innegabili difficoltà che la contrattazione collettiva sta vivendo in molti paesi OCSE, il rapporto sostiene che, se ben concepita, la contrattazione collettiva resta uno strumento chiave. La necessità di meccanismi di coordinamento e negoziazione tra datori di lavoro e lavoratori è, semmai, aumentata in un mondo del lavoro in cui la velocità del cambiamento aumenta e che non può essere regolato facilmente con norme legali uguali per tutti. Inoltre, gli ultimi decenni hanno dimostrato che in molti casi l’alternativa alla contrattazione collettiva non è la contrattazione individuale (come un modello economico standard potrebbe far immaginare) ma la regolazione pubblica oppure nessuna contrattazione, e quindi situazioni di monopsonio (cioè eccessivo potere da parte del datore di lavoro), un tipo di “fallimento di mercato” che la contrattazione collettiva può contribuire a correggere. La stagnazione salariale in paesi dove il tasso di disoccupazione è ai minimi storici come Germania, Regno Unito o Stati Uniti, con le implicazioni che ha per la politica monetaria, è il riflesso di un indebolimento delle relazioni industriali. Sia che si considerino le questioni relative ai salari, alla qualità del lavoro, all’adozione di nuove tecnologie, sia alla protezione per i lavoratori che perdono il lavoro, la contrattazione collettiva e l’espressione dei lavoratori sul luogo di lavoro rimangono strumenti unici che consentono ai governi e alle parti sociali di trovare soluzioni su misura ed eque. Per sfruttare al meglio questo strumento, la legge deve lasciare spazio alla contrattazione collettiva e promuovere (o almeno non scoraggiare) l’auto-organizzazione da parte di lavoratori e datori di lavoro che rimane l’elemento essenziale perché ci possa essere contrattazione.
Tuttavia, per mantenere l’efficacia della contrattazione collettiva, i sistemi nazionali devono essere adattati per trovare il giusto equilibrio tra inclusività (cioè una larga copertura dei contratti collettivi) e flessibilità (cioè la possibilità per settori e imprese di avere qualche margine per adattare gli accordi alle proprie esigenze). Quale ruolo possono e devono svolgere i Governi per rafforzare e modernizzare la contrattazione collettiva? L’esperienza della crisi dimostra che anche riforme apparentemente ben studiate possono essere parzialmente o totalmente inefficaci se non riescono a cambiare le pratiche sul campo e la cultura di chi contratta sul campo. Oppure, a volte possono portare a cambiamenti radicali non voluti, come un blocco totale della contrattazione collettiva, anche se l’intenzione iniziale era solo quella di cambiare elementi specifici del sistema. Disegnare riforme efficaci resta una sfida molto complicata e delicata, ma il rapporto OCSE fornisce diversi elementi di riflessione per governi e parti sociali. Ogni sistema nazionale di contrattazione è unico. Ma il confronto con quello di altri paesi può aiutare a sviluppare nuove idee e immaginare nuove soluzioni.
Andrea Garnero
Economista presso il Dipartimento Occupazione e Affari Sociali dell’Ocse
Chloé Touzet
Economista presso il Dipartimento Occupazione e Affari Sociali dell’Ocse