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Bollettino ADAPT 11 novembre 2024, n. 40
I risultati delle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono un’occasione per riflessione sulla necessità di studiare in maniera più articolata il rapporto tra la politica e lavoratori, uscendo dallo schema interpretativo di una rottura del tradizionale legame tra progressisti e la cosiddetta working class, e di uno spostamento a destra di quest’ultima. Non tanto perché una relazione tra questi elementi non ci sia, ma perché sono mutati i termini di questa relazione. Dei cambiamenti di una classe politica che solo pochi anni fa sarebbe stata liquidata con l’etichetta di populismo, e della necessità per il sindacato di tornare a svolgere una funzione di rappresentanza anche tra le nuove forme di lavoro, ha già scritto Francesco Seghezzi in questo stesso numero di Bollettino ADAPT. Qui vorrei invece sottolineare come sia l’“elettorato dei lavoratori” a costituire un concetto ormai inadeguato a leggere il comportamento di una categoria di cittadini che votano.
Sono gli stessi dati a suggerirlo. Infatti, alla ricerca di un evidente legame tra la condizione lavorativa e il favore espresso nei confronti di Trump si rimane spiazzati di fronte alla molteplicità di indicatori che forniscono indicazioni contrastanti. Ciò anche se si considerano i dati relativi agli iscritti a un sindacato, spesso ritenuti rappresentativi del comportamento dell’elettore-lavoratore tipo.
Nonostante le preoccupazioni persistenti circa una possibile svolta del voto operaio a favore dell’ex presidente Donald Trump, i dati delle elezioni mostrano una vittoria di Kamala Harris tra gli elettori nelle famiglie con almeno un membro iscritto a un sindacato, con un margine di vittoria del 55% contro il 43%. Prima delle elezioni, al contrario, si stimava che gli elettori che non appartenevano a un sindacato si dividessero pariteticamente nelle loro preferenze per la presidenza (47% per Trump, 47% Harris, con un altro 5% che avrebbe appoggiato un candidato di un partito terzo). Per dirla con Steve Smith, vice direttore delle pubbliche relazioni dell’AFL-CIO, “ci sono stati problemi ben più grandi per i Democratici in queste elezioni, ma se si cerca un punto positivo, il sindacato è stato uno di essi”.
Ma se i sindacati sono stati complessivamente un baluardo, è vero che quando Harris è subentrata a Biden nella corsa alla Casa Bianca una parte degli elettori union-member pare abbia deciso di votare Trump. Questo fenomeno, osservato da più fonti, è stato prefigurato dalla scelta di sindacati di rilievo, come l’International Brotherhood of Teamsters (il sindacato degli autotrasportatori) e l’International Association of Fire Fighters (vigili del fuoco) di non esprimere un endorsement alla candidata democratica (come invece hanno fatto una dozzina di altri sindacati). Alla base della scelta, un sondaggio condotto tra i membri dei Teamsters che aveva mostrato un enorme spostamento verso Trump da quando la vicepresidente Kamala Harris era entrata nella corsa per il 2024 (con un rapporto di quasi 2 voti a 1).
Si trattava di un dato in controtendenza rispetto alle aspettative. Durante la presidenza Biden si è assisto alla crescita, largamente tematizzato sui media, di una nuova e vittoriosa spinta alla sindacalizzazione nei settori dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, della ristorazione e del commercio al dettaglio. Nel 2022 secondo il National Labor Relations Board si erano svolte 1.249 elezioni sindacali, con un aumento di quasi il 50% rispetto all’anno precedente e con il risultato a favore della sindacalizzazione nel 72% delle elezioni. Fenomeno questo simboleggiato dalla sindacalizzazione in Starbucks e Amazon. Tanto che, secondo un sondaggio Gallup del 2023, il 72% degli americani si schierava dalla parte degli sceneggiatori cinematografici e televisivi in sciopero, il 67% sosteneva quello degli attori e il 75% quello dei lavoratori dell’automotive.
E dunque come è stato possibile questo sensibile flusso di voti verso il candidato repubblicano, che ha peraltro assunto più volte posizioni anti-union? Per capirlo bisogna uscire dall’ottica prettamente lavoristica.
Innanzitutto sembra che la disaffezione verso la candidata democratica sia stata anche legata al genere, con gli affiliati a un sindacato che hanno cambiato le loro preferenze più di quanto abbiano fatto le affiliate.
Inoltre, lo spostamento del voto operaio va messo in relazione con la dimensione etnica. Secondo le stime dell’U.S. Census Bureau, il supporto a Trump tra gli elettori ispanici è aumentato di 14 punti percentuali dal 2020, e tra gli ispanoamericani la quota di operai è più elevata rispetto alla maggioranza bianca del Paese, con percentuali più alte anche di persone prive di laurea.
Infine le cose non sono andate allo stesso modo in tutti gli Stati. Secondo i dati degli exit poll di CNN l’ex presidente Donald Trump ha guadagnanto terreno tra gli elettori sindacalizzati in Ohio. E ha anche conquistato molti lavoratori dell’auto in Michigan, in specifici stabilimenti, benché complessivamente qui i Democratici abbiano tradizionalmente fatto affidamento sul supporto dei sindacati e Harris tra le union households abbia vinto con un margine di 19 punti.
Dunque, da un lato, i sindacati sono stati un argine, dall’altro alcuni voti sono andati a Trump. Ma questa dinamica non può essere compresa senza considerare diverse variabili socio-demografiche e geografiche. Il semplice fatto di essere appartenenti alla “working class” non pare essere stato sufficiente a spostare il voto o comunque non pare essere in grado di suggerire, da solo, interpretazioni univoche.
D’altro canto, di fronte alla relativa permanenza del voto union-led nell’orbita democratica, vale la pena di osservare come il sindacato continui a essere un fenomeno collettivo che, in un ambiente mediale che riflette una crescente e progressiva atomizzazione della società, è ancora in grado di grado di esprimere una dinamica di democrazia industriale.
Paradossalmente, però, è proprio questa dimensione che indica come il fenomeno sindacale e la sua influenza politica non possano essere considerati in maniera indipendente dalla loro collocazione geografica e settoriale, come le analisi macro-sociologiche tendono talvolta a fare, soprattutto a ridosso delle elezioni. Se cioè il sindacato in quanto fenomeno aggregativo boots-on-the-ground si contrappone al fenomeno che Berry Wellman ha definito “network individualism” (dove gli individui iperconnessi si allontanano da comunità e gruppi situati nello spazio e nel tempo per interagire, senza reale impegno, con le comunità online), va da sé che debba essere studiato e valutato nei contesti concreti (collettivi e individuali) all’interno dei quali questo fenomeno si sviluppa: i territori, i luoghi di lavoro, le famiglie, e anche le identità di genere.
Dovrebbe trattarsi di un principio valido non solo negli Stati Uniti, ma anche, se non soprattutto, in Paesi dotati di una trade union density più alta rispetto al tutto sommato contenuto 10% statunitense (per esempio l’Italia con il suo 30%). Paesi cioè dove l’articolazione sindacale assume una capillarità particolare, intrecciandosi (o non intrecciandosi) in vario modo con strati e segmenti della popolazione. Si otterrebbe forse qualche risultato più esplicativo, a costo di strappare qualche titolo di giornale in meno.
Francesco Nespoli
Ricercatore Università di Roma LUMSA
ADAPT Senior Fellow