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Bollettino ADAPT 8 luglio 2019, n. 26
In occasione dell’iter di conversione in legge del c.d. decreto crescita (DL n. 34/2019), ormai approvato in via definitiva con la fiducia votata al Senato lo scorso 27 giugno, il Legislatore ha introdotto un nuovo strumento negoziale avente la finalità implicita del ricambio generazionale in caso di processi di reindustrializzazione e riorganizzazione in realtà di elevata dimensione occupazionale.
La novella (art. 26-quater co. 1 del decreto convertito) sostituisce integralmente la disciplina di cui al Titolo III del D. Lgs. n. 148/2015 (art. 41), dovendosi dunque ritenere abrogato l’istituto del contratto di solidarietà espansiva. Abrogazione che non può che intendersi definitiva, a fronte di una misura, quella del c.d. “contratto di espansione”, che invece è introdotta “in via sperimentale per gli anni 2019 e 2020” (art. 41 co. 1). Eventuali contratti di solidarietà espansiva in essere alla data di entrata in vigore della legge di conversione saranno comunque validi fino a naturale scadenza, così come eventuali agevolazioni ad essi riferite (art. 26-quater co. 4).
Il contratto di espansione
L’art. 41 D. Lgs. n. 148/2015 prevede oggi – limitatamente al biennio 2019-2020 – la possibilità di addivenire alla stipula, in sede governativa, con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, oppure con le loro RSA ovvero con la RSU, di un particolare accordo a contenuto gestionale, nel caso in cui aziende che occupino più di 1.000 unità, debbano fronteggiare particolari processi di reindustrializzazione e riorganizzazione, al fine di una “strutturale modifica dei processi aziendali finalizzati al progresso e allo sviluppo tecnologico”, cui consegua da un lato una ri-definizione delle competenze del personale in forza e dall’altro la ricerca sul mercato di nuove professionalità.
L’accordo dovrà contenere, quali elementi essenziali: il numero di lavoratori di futura assunzione, con la connessa programmazione temporale, e i relativi profili professionali compatibili con il piano; l’indicazione della durata a tempo indeterminato degli stessi inserimenti, compreso l’apprendistato professionalizzante; la riduzione d’orario media complessiva del personale in forza ed il numero di lavoratori che possono accedere al requisito pensionistico nei termini di cui all’art. 41 co. 5 (v. oltre).
Procedura, termini e riduzione d’orario
Per attivare il ricorso a tale istituto, che si inserisce nella più ampia categoria degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, la legge impone all’azienda di attivare la specifica procedura di consultazione sindacale prevista (art. 24 D. Lgs. n. 148/2015) per la cassa integrazione straordinaria. L’esame congiunto, ove attivato dalle OO.SS. entro 3 giorni dalla ricezione della comunicazione aziendale, dovrà quindi esaurirsi entro 25 giorni dall’avvio della procedura. In deroga alle durate massime previste per il trattamento di integrazione salariale, l’istituto potrà avere durata massima pari a 18 mesi, anche non continuativi, nell’arco del quinquennio mobile.
Con riferimento al personale non coinvolto nell’uscita dall’azienda con il “pre-pensionamento” (art. 41 co. 5), questo potrà essere posto in riduzione d’orario media per un massimo del 30% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati al contratto di espansione, mentre a livello individuale potrà operarsi una riduzione complessiva nell’intero periodo interessato anche fino al 100%. A dette percentuali di riduzione si applicano i medesimi criteri che per i casi di cassa integrazione ordinaria/straordinaria già conosciuti (artt. 3 e 6 D. Lgs. n. 148/2015).
Progetto di formazione e riqualificazione
A norma dei commi 4 e 8 del nuovo art. 41, l’accordo dovrà essere corredato dal “progetto di formazione e riqualificazione”, che sarà oggetto di verifica da parte del Ministero del Lavoro in sede di autorizzazione al trattamento di integrazione salariale, formandone parte integrante.
Il progetto dovrà riportare i contenuti formativi e le relative modalità attuative (sono ammesse anche modalità di formazione on the job), il numero delle ore di formazione e il numero di lavoratori coinvolti, le competenze tecniche iniziali e di destinazione, e distinto per categorie. Il testo di legge specifica poi che il progetto deve garantire, in particolare, quanto previsto – per l’ipotesi di CIGS per riorganizzazione aziendale – dall’art. 1 co. 1 lett. f) D.M. 13 gennaio 2016 n. 94033, ovvero il recupero occupazionale di almeno il 70% dei lavoratori coinvolti nella sospensione.
Inoltre, il comma 8 dell’articolo in commento, estende ai lavoratori coinvolti nel piano formativo la disciplina di cui all’art. 24-bis del medesimo decreto 148, in materia di “contratto di ricollocazione”.
Uscite e pre-pensionamenti
Nell’ambito della medesima procedura, nei confronti lavoratori che maturino, entro 60 mesi (5 anni) il diritto alla pensione di vecchiaia, che abbiano maturato il requisito minimo contributivo, oppure alla pensione anticipata, addivenendo ad accordi di uscita mediante il criterio della non opposizione al licenziamento, può essere accordata un’indennità a carico azienda pari al trattamento pensionistico lordo maturato al momento della cessazione del rapporto, come calcolato dall’INPS. Tale indennità potrà essere erogata anche tramite i fondi di solidarietà bilaterali, ove presenti. Solo nel caso in cui il primo diritto a maturare fosse quello della pensione anticipata, al datore di lavoro viene richiesto altresì il versamento della contribuzione utile al conseguimento del diritto, con esclusione della contribuzione figurativa a seguito della risoluzione del rapporto (ovvero quella connessa alla Naspi).
Si tratta di uno strumento di accompagnamento anticipato al trattamento pensionistico che si aggiunge a quelli già previsti a legislazione vigente. Il riferimento è, in particolare, allo strumento dell’isopensione di cui all’art. 4 co. da 1 a 7-ter L. n. 92/2012 e s.m.i., che prevede l’uscita anticipata dall’azienda per chi matura il diritto al pensionamento tra i 4 e i 7 anni dalla firma dell’accordo, con onere contributivo sempre a carico azienda.
La distinzione di fondo sta nel tentativo, operato con il decreto crescita, di introdurre un meccanismo di ricambio generazionale che consenta da un lato di ri-qualificare il personale in forza e dall’altro, anche a fronte di uscite anticipate di personale, prevedere un recupero occupazionale. Logica opposta rispetto a quella dell’isopensione o di più semplici procedure di licenziamento collettivo, pure frequenti, ove il criterio non oppositivo fa il paio con il criterio del progressivo avvicinamento alla maturazione del diritto alla quiescenza.
Considerazioni finali e (alcuni) nodi aperti
Si tratta ad ogni modo di uno strumento limitato ad una ridotta platea di realtà aziendali, stante il requisito minimo dimensionale (1.000 dipendenti), che peraltro non risulta definito con riferimento alle modalità di calcolo (le tecniche possono essere molteplici: media del semestre/ dell’anno precedente, al 31 dicembre dell’anno precedente, al momento della stipula dell’accordo sindacale…). Non è neppure definito, logicamente, l’iter amministrativo per ottenere l’autorizzazione da parte dell’Istituto di previdenza ad operare in tal senso; nel caso dell’isopensione infatti, tutta la procedura è seguita da controlli e certificazioni sulle singole posizioni contributive/anagrafiche a carico dell’INPS. Non è definito se l’azienda debba presentare opportune garanzie circa l’impegno economico, mentre per l’isopensione è la stessa legge a prevedere la presentazione di apposita fideiussione bancaria, peraltro secondo format definiti a livello centrale.
Aspetti questi che dovranno essere necessariamente chiariti con successivi atti amministrativi, senza i quali la misura rimane confinata a rimanere inapplicata.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo