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Bollettino ADAPT 5 ottobre 2020, n. 36
Il problema del reddito di cittadinanza non sta ne primo pilastro, quello dell’assistenza, ma nel secondo: le politiche attive, che dovrebbero aiutare i beneficiari a trovare una nuova occupazione.
L’Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive, ansce nel 2015 nell’ambito del Jobs Act del governo Renzi on lo scopo di accentrare a livello nazionale le competenze in materia di politiche del lavoro che fino a quel momento erano in capo alle venti regioni italiane. Ma per funzionare davvero aveva bisogno della riforma costituzionale poi bocciata al referendum del 2016. Anche se finora non hanno raggiunto i risultati sperati, tutto lascia pensare che al termine del loro contratto di collaborazione i navigator verranno inseriti all’interno dell’organico dei Centri per l’impiego.
Sembra ormai chiaro a tutti come le vere criticità del Reddito di cittadinanza siano quelle connesse alle politiche del lavoro. Sebbene infatti il primo pilastro, quello che si rivolge a coloro che sono in stato di povertà e, per diversi motivi, non possono lavorare, abbia i suoi problemi, questi non sono paragonabili alla Fase 2, mai veramente partita.
La distinzione tra Fase 1 e Fase 2 non è stata certo annunciata al momento dell’introduzione del decreto sul Reddito di cittadinanza, ma è emersa successivamente come esigenza per risolvere la totale inefficienza rispetto al supporto ai percettori nel trovare un lavoro o nell’intraprendere un percorso di formazione.
Le criticità sono molte ma se vogliamo individuarne una di fondo possiamo trovarla in un qualcosa che viene prima del Reddito di cittadinanza, un problema che doveva essere risolto prima di stanziare risorse che per qualunque addetto ai lavori non avrebbero portato risultati. Parliamo del coordinamento tra lo Stato e le regioni e in particolare dell’efficienza di Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro creata nel 2015 con il Jobs Act.
L’Anpal nasce con lo scopo di accentrare a livello nazionale le competenze in materia di politiche del lavoro che fino a quel momento erano in capo alle venti regioni italiane. Il problema però è che non bastava il Jobs Act per fare questo, occorreva un esito positivo della riforma costituzionale che lo stesso governo stava portando avanti. Esito che si è rivelato negativo dopo il referendum del dicembre 2016 e che ha lasciato Anpal, e con essa le politiche attive del lavoro, in mezzo al guado.
Si tratta quindi di uno stallo che ci accompagna ormai da quattro anni e che si sintetizza in una agenzia nazionale che non ha le competenze per esercitare pienamente il suo ruolo.
È difficile immaginare che nel futuro breve, quello fondamentale per la gestione delle numerose transizioni e casi di disoccupazione che si genereranno nella crisi che stiamo vivendo, il governo decida di mettere mano alla costituzione facendo quello che la riforma di Renzi non è riuscita a fare.
Lo stallo non si può risolvere senza intervenire sul ruolo stesso dell’Anpal, e non sarebbe uno scandalo aprire una vera discussione in merito alla sua eventuale abolizione. Questo porterebbe ad una legittimazione maggiore delle regioni in merito alle politiche del lavoro ma non basterebbe. Un ritorno al regime pre-Jobs Act porterebbe con sé le problematiche connesse ad una grande frammentazione territoriale che ha portato ad emergere alcune (poche) regioni eccellenti ma ha anche prodotto moltissime inefficienze.
Cambiamo nome (e natura) ai navigator
L’autonomia dell’esercizio delle proprie competenze dovrebbe essere potenziata fornendo alle regioni la dotazione in termine di capitale umano in grado di far davvero funzionare i Centri per l’impiego, pur sapendo che senza un vero ruolo (in tutta Italia) delle agenzie per il lavoro poco si potrà fare. Qui entra in gioco anche il futuro dei navigator.
Tutto porta a dire che al termine del loro contratto di collaborazione verranno inseriti all’interno dell’organico dei Centri per l’impiego sia, come in parte sta già accadendo in alcune regioni, attraverso i concorsi ai quali possono presentarsi, sia in seguito ad un potenziale contenzioso giudiziario.
Quest’ultimo si potrebbe evitare attraverso un accordo con le regioni, per le quali ricoprono già spesso un ruolo di assistenza tecnica, che abbia come perno l’impegno finanziario, magari sostenuto dai fondi del Next Generation Eu, a sostenere per loro un percorso di formazione vera.
Sappiamo infatti che, sebbene vengano individuati come capro espiatorio di tutti i mali del reddito di cittadinanza, i navigator (meglio cambiar loro nome) hanno poche colpe fino a quando non vengono formati per poter svolgere al meglio il loro ruolo, ruolo che è stato oltretutto depotenziato proprio in conseguenza alle problematiche generate dalla confusione delle competenze tra Stato e regioni. Gli anni che ci separano alla fine del loro contratto dovrebbero servire proprio a questo, per evitare di buttare via competenze che comunque ci sono ma che necessitano di ulteriore formazione considerata la complessità del mercato del lavoro contemporaneo.
Oltre a questi argomenti c’è un motivo più profondo per mettere in discussione il ruolo dell’Anpal e riguarda la struttura dei mercati del lavoro contemporanei sempre più caratterizzati da transizioni tra periodi di lavoro (con diverse tipologie contrattuali), di non lavoro, di formazione. Accompagnare le persone durante queste transizioni, senza che diventino una condanna, è la sfida che il sistema di politiche del lavoro deve affrontare.
Per far questo occorre muoversi nei territori coinvolgendo attori come sindacati, imprese, scuole e università, attività difficilmente coordinabile a livello nazionale. Si tratterebbe di un cambio di rotta radicale, ma è forse l’unica strada per evitare di implementare un sistema che non funziona perché costruito sui presupposti di un mondo che non c’è più.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Domani, 29 settembre 2020