Non convince l’idea del Governo, con lo schema di decreto legislativo approvato lo scorso 20 febbraio, di ricondurre l’apprendistato nell’ambito del Testo organico delle tipologie contrattuali. Non solo e non tanto perché, a ben vedere, si tratta di un testo destinato a disciplinare le tipologie di lavoro cosiddetto atipico o temporaneo, là dove l’apprendistato è, per struttura e ora persino per espressa definizione legislativa, un contratto a tempo indeterminato. Più ancora una siffatta operazione sembra non cogliere l’essenza dell’istituto che altro non è se non un tassello dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro: quello relativo alla integrazione tra sistema di istruzione e formazione e mercato del lavoro. Un tassello prezioso che, come tale, merita una disciplina a sé come è quella del Testo Unico del 2011.
In termini di affermazioni di principio, invero, l’apprendistato voluto dal legislatore del Jobs Act è costruito attorno alla promozione del metodo della alternanza formativa. Conseguentemente, le principali modifiche alla normativa del Testo Unico interessano il primo e terzo livello che, sulla carta, diventano sempre di più l’apprendistato “a scuola” e l’apprendistato “della alta formazione”. Non pochi difetti tecnici, tuttavia, emergono dallo schema di riordino già approvato dal Consiglio dei Ministri, a conferma della mancata comprensione delle finalità dell’istituto e della distanza tra gli le (buone) intenzioni e le soluzioni normative prospettate.
Che sia come scriviamo lo dimostra, tra gli altri, il fatto che l’approvazione dello schema di decreto condurrebbe al risultato, invero paradossale, di depotenziare il modello Bolzano che pure, come testimoniano le puntuali rilevazioni dell’ISFOL, è allo stato l’unico sistema di apprendistato duale conosciuto e praticato nel nostro Paese.
Differentemente da quanto avviene nel resto d’Italia, infatti, nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, ai sensi del DPR 15 marzo 2010, n. 87, articolo 6, comma 5, gli allievi che hanno conseguito il diploma professionale possono frequentare un apposito corso annuale presso le stesse scuole professionali provinciali, concludendo il percorso con l’esame di Stato. Nel resto del Paese questo è possibile solo “passando”, al quarto o quinto anno, nell’istruzione tecnica o professionale statale e svolgendo quindi presso la scuola una sorta di “periodo di recupero” utile per accedere all’esame di maturità ed avere poi i titoli anche per l’accesso all’università.
Sarebbe quindi teoricamente possibile costruire in apprendistato la quasi totalità del percorso secondario superiore in Emilia Romagna, Lazio, Sicilia e via dicendo (regioni nelle quali non sono mai stati stipulati contratti di apprendistato di primo livello), ma non a Trento e Bolzano, dove pure sono stipulati oltre il 90% di questo tipo di contratti.
Nelle restanti regioni italiane, infatti, si userebbe la disciplina dell’apprendistato in Istruzione e Formazione professionale per svolgere in alternanza il secondo (comunque non prima di 15 anni), terzo e quarto anno di scuola professionale; il quinto sarebbe “coperto” dalla nuova disposizione che, strutturando la sperimentazione c.d. Carozza, permette l’apprendistato di primo livello anche al 4° e 5° anno degli istituti tecnici e professionali. Non è invece possibile frequentare da apprendista l’eventuale quinto anno presso una scuola professionale, poiché la norma è chiara nel fissare la durata del contratto «in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire e non può in ogni caso essere superiore, per la sua componente formativa, a tre anni ovvero quattro nel caso di diploma quadriennale professionale». Eppure nelle Province di Trento e Bolzano (e solo in quei territori) è possibile giungere alla maturità rimanendo nel circuito della formazione professionale anche al quinto anno. Nel caso in cui un ragazzo interessato a conseguire la maturità fosse un apprendista dovrebbe quindi terminare il percorso lavorativo e dedicare un intero anno allo studio tradizionale?
Tale conseguenza è illogica e ingiustificata non solo per la complicazione determinata al singolo apprendista, ma anche per una ragione di carattere più generale. Lasciare questo unico corso annuale fuori dagli spazi dell’apprendistato vuole dire considerarlo in tutto e per tutto un recupero di competenze perse dall’apprendista durante il periodo di apprendistato per il conseguimento del diploma di istruzione e formazione professionale. Ovvero: l’integrazione tra formazione e lavoro comporterebbe per lo studente dei ritardi che hanno necessariamente bisogno di essere corretti se si vuole accedere agli studi superiori. Esattamente il contrario di quanto il Governo sostiene tra le righe nel Jobs Act ed esplicitamente nel progetto de “La Buona Scuola”. Non la valenza educativa e formativa del lavoro, ma ancora una volta la gerarchizzazione del sapere: teoria prima, pratica dopo. Se la pratica è “troppa”, c’è bisogno di recuperare la teoria.
Pare quindi opportuno che il Governo corregga questa disposizione intervenendo sull’articolo 41 dello schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali. Si tratta certamente di un passaggio di dettaglio al confronto dei grandi temi che stanno calamitando discussioni e polemiche, ma non per questo meno significativo di una visione del lavoro e della formazione sottesa dietro al disegno riformatore.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT
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