Non è colpa dei giovani se non si iscrivono all’università

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In queste settimane si è molto discusso della scarsa propensione dei giovani italiani ad iscriversi all’università e, ancor più, della loro facilità nell’abbandonarla. Il numero di matricole è in lieve decremento, pur rimanendo i tassi di iscrizione all’università in linea con i valori europei. Assolutamente fuori media, invece, la percentuale dei laureati: su 100 ragazzi tra i 30 e i 34 anni, solo poco più di 26 (26,2%) hanno conseguito la laurea. Il peggior dato europeo, dopo quello rumeno.

 

Come da tradizione, anche questa comunicazione dell’Eurostat ha guadagnato qualche titolo sui media per un paio di giorni ed è stata oggetto di diversi editoriali, firmati dai più disparati esperti. Non pochi commentatori hanno riflettuto sulle implicazioni della distanza tra università e mercato del lavoro, polarizzandosi tra coloro che vorrebbero una università (soprattutto) funzionale all’ingresso nel mondo del lavoro e coloro che, al contrario, suggeriscono di difendere l’università (innanzitutto) come occasione di formazione del pensiero critico e della capacità di giudizio, da non piegarsi ai bisogni della “produzione”.

Senza in questa sede entrare nel merito di un dibattito piuttosto complesso come quello citato (si leggano le riflessioni sull’Università di Romano Guardini per affrontare senza dogmatismi una querelle di evidente centralità per il futuro della formazione terziaria), è possibile spiegare il dato sullo scarso interesse che i giovani dimostrano di avere verso l’università sposando entrambe le concezioni, tanto quella incentrata sul placement quanto quella più culturale.

 

La prima. Se lo scopo dell’università è quello di formare i giovani ad una veloce ed efficace transizione dalla laurea al lavoro, non solo i dati ufficiali certificano il fallimento dell’obiettivo oggi, ma le recenti linee di riforma della scuola secondaria superiore inducono a pensare che andrà ancora peggio domani. È indubbio che la scuola, a differenza dell’università, stia vivendo in questi anni un forzato, seppure faticosissimo, momento di cambiamento. Per quanto concerne i programmi didattici e, soprattutto, le metodologie pedagogiche, il driver della trasformazione potrebbe essere l’alternanza scuola-lavoro. L’azzardo dell’obbligo legislativo operato da La Buona Scuola, infatti, nel “mucchio” delle esperienze insoddisfacenti, sta anche generando casi di successo, che certificano la possibilità di fare scuola in modo diverso (è proprio questo lo scopo della metodologia dell’alternanza formativa: ribaltare i tradizionali approcci scolasticistici che caratterizzano buona parte delle ore di lezione nella scuola italiana). Questo “modo diverso” avvicina fortemente scuola e impresa, con inevitabili riflessi (positivi) sul placement dei giovani: le imprese tendono ad assumere i più bravi alla fine del percorso o, addirittura, durante gli ultimi due anni, mediante il contratto di apprendistato. Potrebbe in futuro verificarsi lo stesso fenomeno osservato in Germania: i diplomati non continuano a studiare in università perché un lavoro (sicuro, tra l’altro) lo hanno già dopo la scuola! Continuare vorrebbe dire non solo pagarsi ulteriori cinque anni di vita e le rette universitarie, ma anche perdere lo stipendio che si otterrebbe accettando l’offerta di lavoro. Chi propugna una idea di università schiacciata sul placement non dovrebbe lamentarsi di questo fenomeno: se lo studio terziario è funzionale alla occupazione, è ovvio non iscriversi ad alcun corso di laurea se già si lavora. Se l’Università non è in grado di spiegare ai diplomati quale sia il suo scopo più profondo, accontentandosi della noiosa retorica sull’ascensore sociale mediante migliore occupazione, è destinata a perdere immatricolati, sempre di più “piazzati” dalla scuola.

 

Seconda concezione. Non dovrebbero stare sereni neanche i sostenitori delle ragioni culturali della scelta universitaria. È di tutta evidenza che tali argomentazioni non sono trasmesse ai potenziali iscritti e agli studenti stessi, visti i preoccupanti tassi di abbandono. Insomma, le definizioni di università come “occasione di apprendimento del metodo”, “palestra per l’allenamento della capacità critica”, “finestra sul mondo” etc… sono buone come titolo per le slides presentate nei convegni, ma non vengono vissute tutti i giorni in aula. I ragazzi si allontanano perché non capiscono a cosa serva l’università, a cosa servano i corsi che stanno frequentando, cosa c’entrino con la loro vita. E, purtroppo, non trovano nessuno che glielo spieghi. Le scarse performance sul mercato del lavoro dei neolaureati umanistici (quindi proprio i profili più culturali e trasversali, la “serie A” per chi ha questa concezione di università) non possono essere interamente spiegate con uno sbrigativo “le imprese non li cercano” o con una veloce considerazione sull’eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda. È indubbio che le facoltà non sono in grado di formare integralmente i loro iscritti, superando la mera trasmissione teorica di nozioni e, per questo (non per il nome della facoltà!) rendendoli poco occupabili. Non trovano lavoro perché poco formati ad affrontare situazioni complesse e variabili, non perché ignoranti dei linguaggi di programmazione informatica.

 

Insomma, sia che si scelga una colorazione tecno-economicistica della Università, sia che si adotti un approccio più tradizionale, c’è ancora tanto da lavorare perché gli Atenei italiani tornino ad essere attrattivi e, soprattutto, imparino a dialogare con un mondo in costante cambiamento, ragazzi compresi. Finché questo non avverrà, le “matricole” italiane continueranno a diminuire.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

*Pubblicato anche su Ilsussidiario.net, il 27 giugno 2017

 

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