Niente di più vero: potrei riportare ogni parola della prima lezione su Giacomo Leopardi della mia vita, e risaliremmo ai remoti tempi della II media, ma chiedetemi di spiegare cos’è la metafonesi (fenomeno della grammatica storica italiana) e dovrei riaprire un manuale, appena chiuso, per darne un’adeguata definizione.
Perché? Tenute da conto attitudini e interesse, che giocano certamente la loro parte, nel corso dei miei studi ho avuto modo di osservare come il metodo di insegnamento incida notevolmente sull’apprendimento dell’alunno e come l’approccio del docente con la classe abbia un peso preponderante su quello che i ragazzi manterranno della lezione. Per quanto riguarda l’esempio citato precedentemente, la prima volta che ho incontrato il poeta recanatese mi è stato fatto leggere un suo canto e chiesto di individuare in esso le parole che mi colpivano maggiormente, da lì deducemmo poi la poetica dell’autore; nell’altro caso la lezione si è svolta in maniera frontale e rigida: definizione, uso, esempio.
Il corpo docente assegnato ad una classe è composto da professori molto differenti, qualità differenti, ma spesso il difetto è comune: l’incapacità di dare una ragione a quella mole di studio che quotidianamente assegnano agli alunni. Ed è questo il punto chiave: non si può dire ad un ragazzo di quattordici, sedici, diciotto anni che deve studiare perché deve farlo. Innanzi tutto, perché quelle quattro lettere risultano talmente antipatiche alle orecchie di un adolescente, che è difficile che faccia effettivamente quello che le segue, e, soprattutto, perché un professore impiegato in una scuola, che guadagna in una scuola, firmando quel contratto di lavoro ha detto “sì” alla relazione con i giovani. Se voleva fare il magazziniere, e riempire scatole vuote, poteva cercar impiego da un’altra parte.
L’insegnamento non è un rapporto unidirezionale, da A a B, ma bidirezionale: è un continuo scambio tra i due insiemi ricchi ciascuno di elementi differenti.
Il “prof”, dunque, non può pretendere di inculcare nozioni e concetti nella testa del ragazzo, ma dovrebbe innanzitutto mettere in moto le rotelle celebrali (spesso assopite da velleità, tipiche dell’età, o dalla pigrizia, vero nemico del sapere) e, una volta colto il loro moto, direzionarlo verso la conoscenza, ponendo molta attenzione al mantenimento corretto della rotta.
Non sto dicendo, come Leibniz, che la conoscenza è già in noi, ma che se non si stimola la domanda del perché conoscere, perché sapere e perché scoprire, il ragazzo non memorizzerà mai quello che studia, non seguirà con attenzione mai la lezione, né ascolterà mai, attivamente, la voce dell’insegnante.
Esempio pratico: mi è capitato di tenere una lezione (volgarmente detta “ripetizione”) di latino ad un ragazzo del secondo anno di liceo scientifico. Questo poverino, e uso questo termine perché posso soltanto immaginare la fatica che andava facendo, stava studiando a memoria ogni forma di ogni modo, ogni tempo e diatesi del verbo; solo dopo che gli ho mostrato che c’era una via molto più economica ed efficace, che prevedeva l’individuazione del tema verbale e l’aggiunta delle corrispettive desinenze, ha capito che studiare il verbo latino non era un procedimento fine a se stesso, ma permetteva di possedere delle competenze “matematiche” per costruire qualsiasi verbo di tutte le lingue neolatine.
È necessario stimolare la volontà allo studio, altrimenti tutta la fatica del docente (preparare le lezioni, verifiche, interrogazioni, consigli e via dicendo) è futile.
Discorso più ampio vale per le università, soprattutto perché varia da facoltà a facoltà, ma il nocciolo è lo stesso: qui si stanno preparando uomini e donne che domani (e proprio domani, non tra 5 o 10 anni) saranno i futuri lavoratori della nazione, che domani avranno le mani nel mestiere, toccheranno le macchine, maneggeranno gli strumenti, saranno dipendenti, saranno capi, saranno in gruppo, saranno in proprio.
Quotidianamente si può osservare come pochi docenti ricorrano ad una lezione bidirezionale e come pochissimi studenti, quando se ne presenta l’occasione, siano capaci di coglierla ed intervenire attivamente. Come insegnano i docenti universitari oggi? Come svelano ai ragazzi la realtà che presto affronteranno? L’obiettivo è il coinvolgimento emotivo o quello intellettuale, celebrale, una compartecipazione di menti (giovani e meno giovani) che compiono ricerche sulla realtà culturale, economica, industriale dell’oggi?
Non si tratta qui di cosa si sta insegnando: si potrebbe trattare di bilanci come di grammatica storica, ma il concetto importante è di come lo si studia, di come viene proposto “un pareggio o il dittongamento fiorentino”.
Si insiste tanto sul far memorizzare nomi e date e poi i ragazzi non sanno ordinarle in maniera razionale. Gli si assegna la “scheda” di come si scrive un tema argomentativo, un saggio d’opinione o un articolo di giornale ma non hanno tesi da poter inserire e sostenere.
Siamo approdati in un’epoca in cui ormai la memoria è propria delle macchine, dove i dati sono reperibili istantaneamente e, forse questo fa un po’ male ai nostalgici, la memoria ha cambiato i suoi obiettivi (è memoria di procedimenti, di azioni…); non si può dunque pretendere di insegnare cose, ma bisogna svelare i meccanismi che stanno dietro la conoscenza di esse, perché questa possa ulteriormente ampliarsi in ogni campo.
Che qualità deve possedere quindi un professore, oggi? Passione, immancabile, perché un ragazzo non crederà mai a quello che il professore dirà se non è quest’ultimo che lo ha studiato, lo ha capito e ha imparato a trasmetterlo nella maniera adeguata; capacità di adattamento alla situazione-classe, alla generazione, all’indirizzo (e quindi non si può spiegare Dante allo stesso modo in un Liceo Classico e in un istituto tecnico, perché se i ragazzi hanno scelto quell’indirizzo è perché hanno degli interessi e delle qualità particolari) e un pizzico di intraprendenza, perché ci vuole molto coraggio per affrontare la professione-professore, e non è permessa l’apatia.
ADAPT Junior Fellow
@claudiafloreani