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Alla domanda chi difende meglio il lavoro, il campione proporzionale di 700 residenti a Modena, interpellati dall’Osservatorio modenese di Via Emilia, ha dato come prima risposta (28,3%) «un lavoratore deve difendere da solo i propri interessi», staccando di oltre 10 punti i sindacati». Questo dato riportato da Di Vico (Il nuovo lavoro è ancora incompreso) fa riflettere su quale sia il ruolo delle parti sociali nell’affrontare le trasformazioni che oggi sta subendo il mondo del lavoro.
Con l’intento di dare voce alle parti sociali, il convegno annuale promosso da EZA (European Centre for Workers’ Questions) e UNAIE (Unione Nazionale Associazioni di Immigrazione ed Emigrazione), quest’anno ha messo al centro del dibattito le nuove forme di lavoro e la mobilità europea. In tale contesto il mese scorso a Levico si sono incontrati ricercatori, associazioni italiane di migranti e parti sociali, interrogandosi sugli scenari derivanti dal rinnovato contesto occupazionale, sempre più flessibile nei luoghi e negli spazi di lavoro.
Come sottolinea Maurizio Tommasi, Direttore della Rivista Trentini nel Mondo (Associazione organizzatrice dell’evento) nuove parole entrano nel lessico del lavoro (dalla gig-economy allo smart-working, dai platform-workers ai riders di Foodora, Uber o Deliveroo) e vecchie terminologie si colorano di significati nuovi: la “piattaforma” non richiama più alla concezione granitica delle piattaforme petrolifere, ma muta la sua natura divenendo l’eterea piattaforma cloud, con cui i platform workers dialogano per organizzare i turni di lavoro. Nuova centralità assumono parole desuete: l’algoritmo, lo stesso con cui la CGIL si trova a contrattare, riveste oggi un ruolo nella nostra società (così secondo le parole di S. Camusso: “Se i luoghi di lavoro vanno sempre più verso la spersonalizzazione, se l’interfaccia dei lavoratori è una app, allora diventa particolarmente urgente stare in tutte le zone del Paese, altrimenti saremo costretti a inseguire”). Da qui l’idea di CGIL di creare Idea Diffusa, una piattaforma online collaborativa dedicata allo scambio di buone pratiche e nuovi strumenti della contrattazione collettiva all’epoca della digitalizzazione.
Un approccio proattivo del sindacato, tradizionalmente perseguito da CISL, viene presentato a Levico da Paolo Cagol (anche fondatore dell’Associazione EUTOPIA), il quale riflette sulla dimensione esistenziale della precarietà del lavoro tra flessibilità dei mercati e contesti socio-economici. Citando le parole di Rayneri “il mercato del lavoro è in realtà il mercato della vita in cui non si scambia solo la capacità lavorativa del lavoratore ma la sua personalità”, il sindacalista richiama alla dimensione di professionalità, vera e propria estensione dell’identità personale del lavoratore. Secondo Cagol, la flessibilità e la mobilità nei moderni mercati del lavoro sono fattori sostanzialmente congeniti al modello sociale ed economico di riferimento e, non essendo intrinsecamente negativi, con le giuste misure possono essere gestiti.
La definizione di possibili contromisure alla flessibilità passa per l’ascolto diretto delle persone. Così UIL decide di scendere direttamente nelle strade e raccogliere la voce dei lavoratori delle piattaforme di servizi di ristorazione, come Foodora e Deliveroo: “L’importante è che mi paghino. Le condizioni di lavoro sono giuste. Lavori quando vuoi e quanto vuoi. È flessibile” (19 anni, Milano); “Nonostante debba esserci una certa libertà nello scegliere i turni di lavoro, molti colleghi ed io veniamo costantemente e velatamente minacciati se non diamo disponibilità per i weekend” (22 anni, Bari). Mario Grasso, sindacalista UIL, entra nel confronto portando i risultati della ricerca Digital Footprint Project (condotta da UNI Europa, FEPS e Università di Hertfordshire) e quantifica la diffusione del fenomeno del lavoro tramite piattaforme in Italia: 2.190.000 di Italiani guadagnano fino al 50% del proprio reddito dal lavoro su piattaforme, mentre ad utilizzare settimanalmente le piattaforme digitali come consumatori sono 5.310.000 di italiani. Di recente la giurisprudenza (Tribunali di Milano e Torino) ha definito quello dei riders come lavoro autonomo, evitando così di riconoscere loro le tutele proprie di un rapporto di lavoro subordinato. A fronte di queste prime prese di posizione giurisprudenziali, la proposta di ETUI (European Trade Union Institute) si struttura su più versanti[1]: garantire una tutela speciale per i crowd-worker[2] (ad esempio non comportando alcuna negativa conseguenza nel caso di disattivazione temporanea dell’account del lavoratore) ed auspicando un contratto collettivo dedicato.
Una rilettura in chiave di relazioni industriali del fenomeno viene portata da Zak Kilhoffer (CEPS Think Tank, Center for the European Policy Studies), il quale si chiede se sia possibile applicare lo scenario degli esistenti modelli organizzativi, già contemplati dalle relazioni industriali, alla nuova realtà dei platform-workers. Dall’analisi emerge che, se da un lato il numero di lavoratori delle piattaforme organizzati in strutture associative rappresentative è ancora limitato, anche se crescente (sono più diffuse invece forme spontanee di iniziative informali tramite gruppi Facebook o Forum online); dall’altro lato, i datori di lavoro delle Piattaforme (come Uber, Deliveroo e Foodora) per lo più non si organizzano in gruppi rappresentativi dei loro interessi, salvo alcuni casi limitati (ad es. Deutscher Crowdsourcing Organization). Mentre paiono diffondersi sempre più queste nuove tipologie di lavori, al contempo si scorge un attaccamento alle tradizionali forme di lavoro subordinato. Nikihil Datta, ricercatore della London School of Economics, presenta la sua ricerca “Willing To Pay For Security”, che consiste in un esperimento condotto tramite un questionario rivolto ai lavoratori per analizzare gli impatti delle loro preferenze lavorative sulla crescita di accordi di lavoro atipico nel Regno Unito. Dall’analisi emerge che gli attributi tipicamente associati alle tradizionali relazioni tra datore di lavoro e dipendenti (come la sicurezza del posto di lavoro e i diritti ai sussidi) sono di gran lunga i più apprezzati dal lavoratore. In media, le persone sono disposte a pagare quasi 9 sterline l’ora del loro stipendio orario per un contratto a tempo indeterminato contro un contratto di un solo mese e 5,90 sterline all’ora per le ferie e la malattia pagate.
Dinnanzi alla mutevolezza dello scenario occupazionale, emerge così a livello europeo un bisogno di stabilità nei rapporti di lavoro ed una spinta alla partecipazione dei lavoratori nelle scelte organizzative. Dialogo sociale ed approccio proattivo di sindacati/associazioni datoriali vengono richiesti anche a livello europeo da ETUC (European Trade Union Confederation tramite la Risoluzione del giugno 2016), che vede nella digitalizzazione un rischio ed allo stesso tempo un’opportunità: l’auspicio è che la Commissione Europea incentivi iniziative di concertazione delle parti sociali, come quella intrapresa dal Governo tedesco tramite il Libro Bianco “Arbeit 4.0” nel 2016 (per un approfondimento si veda Dialogo sociale e co-gestione per la sfida di Industria 4.0. A proposito del libro Bianco del Governo tedesco sul lavoro 4.0).
Secondo i principi europei dei diritti sociali (European Pillars of Social Rights), un ruolo importante può essere assunto dalle parti sociali (associazione datoriali e sindacali) e le altre organizzazioni della società civile nella definizione delle politiche occupazionali attuali. Così, Jukka Ahtela, rappresentante per la Finlandia[3] all’European Economic and Social Commitee (EESC), riporta al Convegno le priorità percepite dal Comitato Europeo: la formazione continua e la partecipazione dei lavoratori (EESC/SOC/561). Secondo il Comitato, “il ruolo del dialogo sociale e civico non è quello di opporsi alle transizioni derivanti dall’economia digitale, ma piuttosto di guidarle nel miglior modo possibile per cogliere tutta la gamma di benefici che possono apportare per la crescita, la promozione dell’innovazione e delle competenze e la sostenibilità”.
Il percorso olistico per digitalizzare l’industria europea, voluto anche dalla Commissione Europea, richiama innanzitutto il ruolo delle istituzioni dell’UE nel coordinare strategie nazionali e fornire opportunità di rete per le parti interessate, ma richiede agli Stati Membri di preparare un cambiamento socio-economico, lavorando tramite le politiche educative e di formazione (Eu Commission Press release, 25 Aprile 2018).
Per accettare l’ambiziosa sfida lanciata dall’Unione Europea, alle parti sociali (sindacati e associazioni dei datori di lavoro) si richiede di attuare metodologie partecipative nella creazione di percorsi di interesse condiviso tra direzioni aziendali e lavoratori, come ad esempio nell’ideare percorsi di formazione integrale dei lavoratori per lo sviluppo di competenze appropriate e professionalità adeguate. Il ruolo delle relazioni industriali diviene di progettazione delle soluzioni che permettano di gestire la flessibilità, tramite un approccio partecipativo e di sistema: nel ripensare un nuovo patto sociale, occorre preservare il “diritto alla sguardo” di cui parlava Trentin, cioè quel diritto all’informazione e alla formazione di un lavoratore consapevole nella vita in azienda, luogo in cui è chiamato sempre più a portare la sua professionalità e la personalità (tanto da mettere in crisi la classica logica dello scambio svolgimento della prestazione-retribuzione).
Agli Stati Membri si richiede di definire politiche industriali pubbliche che possano influenzare la crescita digitale (tramite la presenza di enti che facilitino il network con le PMI italiane, come i Competence Center ed i Digital Innovation Hubs; attraverso politiche che favoriscano l’alternanza scuola-lavoro, come prima finestra per i giovani sul mondo del lavoro[4]). Riusciranno i Governi nazionali a raccogliere tale sfida in un contesto apparentemente contraddittorio?
Come sottolinea Ilaria Dal Bianco, Presidente di UNAIE, la contraddizione risiede tra i principi contenuti nella Carta dei Diritti di Goeteborg, siglata dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione lo scorso novembre 2017 (la quale richiama tra i Pilastri fondativi dei diritti sociali europei le politiche delle pari opportunità, il sostegno della formazione permanente, l’equilibrio tra vita lavorativa e familiare e le politiche di inclusione sociale) e la realtà in cui oggi viviamo, che vede il ritorno dei nazionalismi, del protezionismo dei confini tramite la chiusura delle frontiere e fenomeni quali la Brexit, in cui la ricerca della sovranità nazionale sembra voler contrastare i fenomeni della globalizzazione. Se ieri l’Italia “esportava” lavoratori, portando il lavoro nel mondo, ora occorre riflettere sui nuovi diritti e le nuove tutele, in quanto la mobilità spesso diventa di difficile comprensione. Se da un lato la maggior flessibilità delle nuove forme occupazionali potrebbe incentivare fenomeni di mobilità internazionale ed occasioni di crescita delle professionalità più consolidate, dall’altro potrebbe comportare una maggiore precarietà per i soggetti meno formati e quindi più deboli sullo scenario dell’attuale mondo del lavoro, sempre più esigente e veloce. Anche Dal Bianco riconoscere che per osteggiare le nuove forme di precariato, occorre dare nuova forza al dialogo sociale ed un ruolo del sindacato che riconosca la formazione dei lavoratori, come un diritto che possa tutelare la professionalità del lavoratore dentro e fuori l’azienda.
Fin dall’apertura del convegno l’invito è ad andare oltre ai luoghi comuni e spingersi in profondità nelle analisi: anche la precarietà, quella spesso osteggiata in maniera allarmistica da alcune parti sociali, può riscoprirsi per alcuni versi positiva (il lavoretto su piattaforma, saltuario e “precario”, per uno studente potrebbe avere dei risvolti di utilità, erodendo il margine del lavoro nero). I sindacati seduti al tavolo del confronto si sono dimostrati aperti e per lo più lontani dalla retorica, capaci di parlare agli imprenditori presenti. Imprenditori-innovatori come Manuel che, nonostante facciano della realtà virtuale il loro business, ricordano alla platea dei presenti che lo scopo delle nuove tecnologie è quello di far assaporare l’esperienza, invitando poi a viverla per davvero: così indossando i Samsung Gear potrai in pochi secondi raggiungere con la mente Roma e visitarla in un tour esperienziale che ti lascerà la voglia di ritornarci presto di persona.
Fortunatamente e spontaneamente, la realtà digitale muove le coscienze e fa nascere movimenti di sensibilizzazione sull’uso degli strumenti digitali. Consapevole dei rischi e delle opportunità che il web ti può offrire, Davide Dal Maso (23 anni, Social Media Coach ed educatore digitale), porta al convegno la sua esperienza di fondatore di Social Warning – Movimento Etico Sociale, che tramite una rete di volontari in tutta Italia insegna l’educazione digitale nelle scuole medie e superiori. L’obiettivo dell’associazione no profit è di sensibilizzare i ragazzi ad utilizzare correttamente, ma soprattutto consapevolmente, gli strumenti digitali che fin da giovanissimi si trovano tra le mani. Un teenager d’oggi, solo perché è un nativo digitale, non è detto che sappia utilizzare lo smart-phone e soprattutto, se non vi è una corretta educazione potrebbe facilmente diventare colpevole o cadere vittima di fenomeni di cyberbullismo: la figuraccia che si fa tra i banchi di scuola durante un’interrogazione in cui si è impreparati, se ripresa con l’immediatezza di una Instagram Story, non si limita ad una risata tra le mura della classe ma viene amplificata a suono di condivisioni e like sui social.
[1] Intanto, a livello Europeo viene accolta dalla Commissione Occupazione del Parlamento Europeo la proposta di regolamentare i lavori nella gig-economy (proposta al momento al vaglio del Parlamento).
[2] Secondo una definizione dell’ILO, per “crowd-work” si intende il lavoro dato in outsourcing su piattaforme online che mettono in contatto un indefinito numero di organizzazioni, aziende ed individui attraverso internet e spesso coinvolge “micro-attività” estremamente parcellizzate.
[3] Esempi di buone pratiche nella contrattazione collettiva si ritrovano nel panorama finlandese, ove è stato siglato un accordo collettivo tra una piattaforma che fornisce servizi di pulizia (Hilfr.dk) e l’associazione sindacale 3F, comportando vantaggi per i lavoratori della piattaforma quali un salario minimo, contributi pensionistici e ferie e malattie pagate.
[4] Per un approfondimento L’alternanza scuola-lavoro e i cambiamenti contenuti nella Legge di bilancio
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo