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Nell’articolo “La falsa promessa delle (vecchie) politiche attive”, pubblicato su Avvenire il giorno 1 febbraio 2018 e su bollettinoadapt.it, Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi centrano due elementi fondamentali.
Il primo, consiste nel ruolo dei servizi per il lavoro. Spesso la stampa evidenzia il dato, sicuramente non positivo, della scarsa intermediazione svolta dai servizi pubblici, per altro ignorando sistematicamente o quasi il divario immenso che caratterizza la rete italiana, dotata di poco meno di 7000 dipendenti da quella generalmente utilizzata come pietra di paragone tedesca, dotata di quasi 100.000 unità.
L’intermediazione è fondamentale, ma non è l’unico dei servizi che debbono essere prodotti dai centri per l’impiego. L’articolo lo spiega molto bene: “Formazione, riqualificazione, bilanci di competenze e soprattutto orientamento sono tra gli strumenti principali che possono servire ad un lavoratore che voglia affrontare una carriera che, volente o nolente, sarà sempre più discontinua”.
Dunque, è necessario, quando si ragiona di politiche attive per il lavoro, essere consapevoli di quali sono i servizi da rendere, perché altrimenti non si è in grado di cogliere quali risultati si possono ottenere e, di conseguenza, nemmeno si riesce a capire come programmare le attività e come organizzare l’interazione/integrazione pubblico privato.
In effetti, i servizi per il lavoro prevedono:
– prima accoglienza, profilazione e accordo sui sistemi di ricerca attiva
– orientamento
– formazione
– riqualificazione
– bilancio di competenze
– misure di politica che combinino in modi diversi le precedenti azioni (comprendendo anche tirocini)
– intermediazione di lavoro, cioè proposte di avviamento al lavoro vero e proprio.
L’ultimo elemento è importantissimo, ma non è il solo. Per altro, in un sistema che sempre più si orienta a remunerare i soggetti privati che in via sussidiaria si aggreghino al pubblico per avviare al lavoro le persone col sistema a risultato, funzioni preparatorie come appunto accoglienza, bilanci di competenze e orientamento è largamente necessario siano in forte misura svolte dai servizi pubblici, già finanziati a questi scopi, visto che si tratta di funzioni preliminari, difficilmente remunerabili a seguito del risultato, ma necessariamente da compensare in base al flusso dei soggetti trattati.
Dunque, occorre imparare a comprendere che i servizi per il lavoro non sono solo intermediazione. In un contesto sociale ed economico soggetto ai cambiamenti epocali come quello nel quale viviamo è molto probabile che nella transizione tra un lavoro e l’altro sempre più spesso le persone dovranno cambiare anche in modo radicale non solo la qualificazione professionale necessaria a rientrare in un certo settore, ma a riorientarsi e riqualificarsi praticamente da zero, per sperimentare settori e forse anche tipologie lavorative (autonome invece che subordinate) del tutto diverse da quelle precedentemente svolte.
Compreso ciò, la valutazione delle politiche attive non potrà fare a meno di tenere conto, quindi, di quanto e come i servizi accolgono, orientano, avviino a tirocini, aiutino a comprendere i gap di competenze, intermedino formazione e non solo lavoro.
Il secondo punto centrale è quello dell’opacità del mercato. Citiamo ancora il passaggio fondamentale dell’articolo: “Gli ultimi dati Eurostat mostrano come in Italia l’82% della popolazione ricorra ancora a parenti e amici come canale principale per la ricerca del lavoro. Non abbiamo ancora sviluppato una cultura dei servizi per il lavoro. E questo non solo per gli scarsi risultati che il sistema pubblico produce, anche i dati sull’utilizzo delle agenzie private sono infatti bassi, nonostante l’aumento dei lavoratori in somministrazione. Il dato culturale è il risultato di diverse caratteristiche dell’economia italiana: dalla dimensione delle imprese alle grandi differenze territoriali, dalla cultura del posto fisso a decenni di ammortizzatori sociali usati male”.
I dati ci dicono che solo il 18% della ricerca di lavoro avviene avvalendosi dei canali “ufficiali”: servizi pubblici o agenzie private che siano, tanto è vero che risulta comunque molto bassa anche l’intermediazione dei privati. Per altro, l’utilizzo delle agenzie è in costante aumento, è vero, ma la gran parte delle somministrazioni è limitata a pochissimi giorni, connessa a necessità di sostituzioni per assenze di breve termine o per contingenze di brevissima durata.
Dunque, si pone il problema di una domanda di lavoro che sceglie canali chiusi, opachi e ristretti, che sfuggono alla possibilità di intercettazione dei servizi pubblico/privati.
Questi dispongono di banche dati molto folte e sempre più coerenti, omogenee ed organizzate di persone disposte a lavorare e, dunque, ad una rappresentazione quasi totale e capillare dell’offerta di lavoro, cui fa fronte una domanda asfittica. L’intermediazione di lavoro non può che risultare, dunque, bassa ed insufficiente.
Come agire? Confermato che le politiche attive debbono essere studiate a partire dai bisogni della persona in un contesto da considerare per sua natura ormai mutevole, le norme di regolazione del mercato del lavoro dovrebbero puntare sull’incentivazione virtuosa della manifestazione della domanda di lavoro ai canali ufficiali. Facciamo pochi esempi: le aziende potrebbero essere condotte a chiedere ai servizi per il lavoro la selezione e l’avvio del personale, consentendo loro di incrementare i numeri e la durata dei tirocini, rispetto agli standard normali; oppure incrementando gli sgravi a qualsiasi titolo previsti dalla normativa di volta in volta vigente; o, ancora, rendendo più facile il prolungamento del tempo determinato oltre la soglia dei 36 mesi.
Insomma, occorrerebbe porsi il problema di premiare le aziende disposte virtuosamente a rendere trasparente e conoscibile il proprio fabbisogno, anche normando un patto di servizio personalizzato con esse, simmetrico a quello che la normativa richiede al lavoratore. Le imprese, allo scopo contattate da servizi per il lavoro dinamici ed in grado di incontrarle e dialogare con esse, si impegnano a forme di ricerca attiva dei lavoratori mediante i servizi, stipulando con essi i modi operativi necessari (non ultimi anche indicazioni su come organizzare specifiche attività formative), spinte dai vantaggi che la normativa offrirebbe loro.
I servizi per il lavoro potrebbero essere valutati, dunque, anche per la capacità di illustrare alle imprese i vantaggi e di stipulare questi patti di servizio, sì da ottenere in un colpo solo l’emersione della domanda, le informazioni necessarie per un corretto orientamento di chi cerca lavoro ed un incremento graduale e significativo anche dell’intermediazione al lavoro, fermi restando gli altri indispensabili servizi elencati prima.
Il patrimonio dei servizi è sempre, prima dell’organizzazione e degli strumenti, la conoscenza. Conoscere direttamente le imprese e la domanda, prendendo atto che essa è improntata, attualmente, alla massima flessibilità, consente ai servizi di rendere ai lavoratori risposte a loro volta commisurate alle esigenze del mercato.
Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow