Adesso che sta al bar sorride. «È andata così», dice. Prima, però, c’è stato il mal di stomaco che ti sbrana, le notti senza chiudere un occhio. Otto anni fa Federica era appena uscita dalla scuola per geometri. Aveva scartato l’università, lavorato due anni a zero euro per terminare il tirocinio. Aveva affrontato le spese per l’esame e quelle di iscrizione all’albo. Infine, l’offerta dello studio di professionisti, lo stesso del praticantato: ima partita Iva mascherata da contratto. Otto euro euro all’ora. Da cui, ovviamente, sottrarre tasse e contributi. «Solo per l’Inps ne spendevo 3300 l’anno», racconta.
È andata avanti per tre anni, poi è arrivato l’impiego al caffè della piscina del paese, ma solo durante i fine settimana. «A un certo punto i titolari del locale mi hanno proposto un contratto vero, il primo della mia vita. E ho mollato lo studio, il sogno di disegnare». Adesso ha uno stipendio fisso, contributi, 800 euro che entrano in tasca ogni mese. Federica si definisce «sfigata», per i ricercatori del Cnel, invece, si tratta di una «working poor»: l’esercito di italiani che hanno un posto ma guadagnano meno di 6,9 euro l’ora. Sono tanti, e soprattutto in crescita: l’11,7% degli occupati. Una percentuale che vola al 15,9% quando si parla di autonomi: 756 mila persone che, semplicemente, non ce la fanno.
Non solo giovani, ma anche trentenni, quarantenni. Sono stati precari, poi i pilastri instabili della «generazione mille euro». Adesso sono cresciuti e, banalmente, si sono trasformati in poveri. Senza accorgersene, rimbalzando da un contratto all’altro. Pagati pochissimo. E dire che, per un periodo, lo stipendio basso sembrava un grimaldello per aprirsi le porte delle aziende. S’è trasformato in una trappola, spiega il rapporto presentato ieri nella sede del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Quasi quattro «working poor» su dieci, infatti, non escono dalla loro condizione perché hanno trovato un posto migliore, ma perché sono spariti dal mercato del lavoro.
Inattivi, scoraggiati. «I working poor sono prevalentemente i lavoratori meno qualificati, con bassi livelli di istruzione e occupati in settori a bassi salari. A differenza del passato, ora tale fenomeno riguarda anche lavoratori autonomi con dipendenti e i lavoratori più istruiti» spiega la dottoressa Silvia Spattini, ricercatrice del centro studi Adapt. Artigiani, commercianti, architetti: rischiano tutti. «Lavoravo in una multinazionale, mi hanno tagliato assieme ad altri colleghi», racconta Stefano, fuga in Austria dopo la trafila di curriculum senza risposta e offerte di stage. «Adesso collaboro con una piccola azienda che produce software per autoscuole, ho dovuto accettare per non rimanere ancora a spasso».
Ha trentadue anni. «Lo stipendio? Mai guadagnato più di 1100 euro al mese, se non avessi i genitori ancora vivi sarei alla Caritas». Papà e mamma sono stati per anni il vero ammortizzatore sociale, ma ora rischiano di trasformarsi in concorrenti. «E’ una guerra strisciante», spiega Ugo Testoni, 61 anni, copywriter di Varese che ha fondato Acta.
L’associazione riunisce formatori, ricercatori, informatici, creativi e altre categorie di consulenti. In pratica, dice Testoni, «cittadini di Serie B ma contribuenti di serie A, che adesso rischiano di restano tagliati fuori». È una battaglia, racconta, e il campo sempre più affollato: i nuovi arrivati sono i cinquantenni usciti dal lavoro e pronti a mettersi in proprio, con un tesoretto in tasca e la possibilità di giocare sui prezzi, abbassandoli sempre di più. «Alle aziende che cercano collaboratori fanno gola, soprattutto in questo momento in cui si tira a campare: costano poco, hanno esperienza». Eppure «una struttura occupazionale che invecchia ha effetti deleteri sull’evoluzione della produttività spiega- va ieri il Cnel perché frena il cambiamento tecnologico, l’innovazione, e si riflette in maniera sfavorevole sulla posizione competitiva delle imprese».
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I nuovi poveri con diploma e lavoro. "Rinuncio ai miei sogni per 7 euro all'ora"