Le ultime proiezioni dell’OMS sul numero di persone che in Italia soffriranno di sovrappeso e di obesità nel 2030 evidenziano un fatto rilevante: saranno queste le epidemie del futuro. I dati, che trattandosi di previsioni devono essere presi con cautela, segnalano che nel 2030 il 50% delle donne e il 70% degli uomini saranno in sovrappeso. Si preannuncia, quindi, una crescita rispetto ai dati del 2010, quando la percentuale di sovrappeso delle donne era del 39% e tra gli uomini del 58%. Non molto più incoraggianti sono i dati rispetto alle percentuali di obesi: si prevede che la percentuale di donne obese passi dal 10% al 15% e quelle degli uomini dal 12% al 20%.
Oltre agli effetti che l’incremento del numero di persone con problemi di sovrappeso causa sul sistema sanitario e di Welfare, questa nuova epidemia ha anche un importante impatto sul mercato del lavoro. Riguardo al rapporto di lavoro della persona affetta da queste malattie, si presenta la possibilità che il datore di lavoro proceda al suo licenziamento per giustificato motivo oggettivo per inidoneità sopravvenuta o per scarso rendimento. La mancanza di una normativa che conceda diritti specifici alle persone affette da malattie croniche e, in questo caso concreto, da sovrappeso e obesità, determina l’applicazione del regime generale che interessa tutti i lavoratori. In questo senso, la perdita d’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto di lavoro si giustifica in ragione della perdita delle capacità di cui il lavoratore era in possesso al momento della conclusione del contratto. L’inidoneità sopravvenuta deriva dall’impossibilità del lavoratore di svolgere le funzioni proprie del suo rapporto di lavoro, mentre lo scarso rendimento riguarda l’incapacità di raggiungere gli obiettivi nel modo che precedeva l’insorgere della malattia. Il presentarsi di tali condizioni porta al licenziamento per giustificato motivo oggettivo con preavviso, a norma dell’art. 3 della legge n. 604 de 5 giugno 1966, rientrando nelle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Il Jobs Act interviene sulla materia eliminando la possibilità di reintegra per licenziamento oggettivo illegittimo nel caso in cui non sia accertata la inidoneità sopravvenuta del lavoratore o lo scarso rendimento. Queste regole in materia di licenziamento hanno come conseguenza l’uscita prematura delle persone affette da una malattia cronica del mercato del lavoro con la consegna di un indennizzo. Visti i dati che prevedono che più della metà della società sarà affetta da problemi di questo tipo, e quindi anche una buona parte della popolazione attiva, diventa una priorità assicurarsi che queste persone possano continuare a svolgere la propria prestazione lavorativa attraverso l’adattamento del posto di lavoro, qualora non fosse possibile svolgerla nelle condizioni iniziali. Questa nuova epidemia rappresenta una vera minaccia per la sostenibilità dei sistemi di Welfare che potrebbero assistere ad una forte diminuzione dei contributi versati dovuta all’uscita delle persone con sovrappeso e obesità del mercato dal lavoro , anche accompagnata da un aumento dei costi di cura dovuti all’incremento del numero di persone che ne necessitano.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea negli ultimi pronunciamenti adotta tutta un’altra posizione rispetto a quella sostenuta nella legislazione italiana mirata a tutelare la situazione dei lavoratori con malattie croniche, come l’obesità, ma che non hanno ottenuto il riconoscimenti di disabilità a effetti amministrativi (Cfr. Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, 2015, n. 36). Nello specifico, la sentenza di 18 dicembre 2014, Fag og Arbejde (FOA) contro Kommunernes Landsforening (KL), causa 354/13 che tratta il caso di un lavoratore affetto da obesità, stabilisce che sebbene lo stato di obesità non costituisca, in quanto tale un handicap, può rientrare nel concetto di disabilità della Direttiva 2000/78, «qualora determini una limitazione risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori». Questa sentenza prevede l’equiparazione tra obesità e disabilità se questa malattia impatta nello svolgimento della prestazione lavorativa. L’equiparazione ha effetti importanti nella disciplina del licenziamento dell’ordinamento giuridico italiano. Nel caso in cui il datore di lavoro non riesca a provare di aver cercato di adattare il posto di lavoro alle nuove condizioni del lavoratore con obesità, il licenziamento rientrerebbe nel motivo di nullità con obbligo di reintegra previsto dall’art. 2 Decreto legislativo n. 23 di 4 marzo di 2015. In altri termini, si tratterebbe di un licenziamento nullo per vulnerare il divieto di discriminazione per handicap previsto dall’art. 15 dello Statuto dei lavoratori ovvero per fondarsi nella disabilità fisica o psichica del lavoratore in base al comma 4 dell’articolo 2 del summenzionato Decreto.
La posizione adottata dalla Corte di Giustizia costituisce una via per favorire la tutela dei lavoratori con sovrappeso e obesità sebbene non rappresenti la soluzione definitiva del problema dell’uscita prematura del mercato del lavoro di questi lavoratori. Si tratta infatti di una tutela difensiva e non preventiva dato che risulta applicabile solo quando il licenziamento si è perfezionato. La vera sfida per permettere la sostenibilità del lavoro delle persone con malattie croniche, tra le quali, l’obesità, dovrebbe consistere nell’adattamento delle condizioni lavorative durante la vigenza del contratto, e non nel momento successivo al perfezionamento del licenziamento.
Silvia Fernandez Martinez
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@Silvia_FM_