Esiste una correlazione molto stretta tra i livelli dell’occupazione femminile e quelli del lavoro part time. E tale correlazione è tanto più evidente nei Paesi in cui sono sviluppati i servizi sociali, i congedi (anche di paternità di cui si avvalgono persino i primi ministri) e tutte quelle misure che, nella letteratura, vengono raccomandate allo scopo di garantire un’effettiva conciliazione tra lavoro e cura della famiglia. Prendiamo le statistiche Eurostat. In Danimarca a fronte di un tasso di occupazione femminile del 71,1% la percentuale di rapporti di lavoro a tempo parziale e’ pari al 39%; in Svezia al 40,4%, rispetto ad un tasso di impiego del 70,3%; in Olanda del 76,5% rispetto ad un tasso del 69,3%; in Germania si tratta rispettivamente del 45,5% sul 66,1%. Trend pressoché analoghi esistono in Austria. Anche in Gran Bretagna, il cui modello sociale è assai diverso da quello vigente nell’Europa continentale, a fronte di un tasso di occupazione femminile del 64,6%, il part time è diffuso in quota del 43,3%. In Belgio dove i tassi di impiego delle lavoratrici sono meno elevati (56,5%) è comunque molto usato il lavoro a tempo parziale (42,3%). In una posizione intermedia tra questi andamenti e quelli degli altri Paesi c.d. mediterranei si trova la Francia, dove a fronte di un tasso di occupazione femminile del 59,9% (sicuramente più elevato di quello degli altri) la percentuale di part time è pari al 30%. In Portogallo, Grecia, Spagna e Italia a tassi di occupazione rispettivamente del 61,1%, 48,1%, 52,3%, 46,1% corrispondono percentuali a tempo parziale del 15,5%, 10,4%, 23,2%, 29%. Considerazioni interessanti su questo istituto sono svolte, tra le altre, in una recente pubblicazione degli Itinerari de Il Mulino (Le politiche del lavoro di Elisabetta Gualmini e Roberto Rizza) dove viene esaminato,nell’arco di alcuni decenni, l’andamento del lavoro a tempo parziale in Europa. “L’importante contributo del part time – è scritto – rispetto alla crescita dell’occupazione femminile è mostrato evidenziando sia la correlazione negativa tra quota di part time e disoccupazione femminile, sia il maggiore incremento, soprattutto negli ultimi anni, dell’occupazione a tempo parziale rispetto a quella a tempo pieno”. Prendendo in considerazione la sequenza storica (sono ampiamente citati i saggi di Emilio Reyneri) dal 1991 al 1994 l’occupazione femminile part time è la sola a crescere in Europa ed oltre il 70% dell’occupazione femminile aggiuntiva appartiene a questa tipologia d’impiego. Dal 1995 al 2003 circa il 40% dell’occupazione femminile è a tempo parziale. Interessante poi è notare che le ventenni tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila sono entrate nel mercato del lavoro prevalentemente a tempo pieno, mentre le trentenni e quarantenni che sono passate da uno stato di disoccupazione nel 1995 a uno di occupazione nel 2003, hanno trovato lavoro a part time. Dai 40 ai 55 anni si rafforza sempre più l’effetto sostituzione del tempo parziale rispetto al full time. Gli autori concludono le loro considerazioni affermando che «nei paesi a bassa occupazione femminile come l’Italia, le donne sono più orientate al tempo pieno, mentre nei paesi in cui l’occupazione femminile è alta, cresce la quota di lavoro parziale». Viene spontaneo domandarsi se, in generale nel dibattito, non si faccia confusione tra la causa e l’effetto: e cioè che l’occupazione femminile stenti a decollare proprio in ragione della scarsa diffusione del part time. Questa osservazione sottilmente politically (in)correct ci conduce a rivisitare il concetto di part time involontario, in quanto gli autori constatano che «nei paesi a bassa occupazione femminile, il part time è prevalentemente involontario, in quanto in Europa meridionale è più difficile tornare a un’occupazione a tempo pieno una volta esaurite le ragioni che avevano originato la riduzione dell’orario di lavoro (cura dei figli piccoli o dei genitori anziani). Al contrario, nel centronord Europa, ove il part time è più diffuso, è più alta la quota di donne che lo svolgono volontariamente». Ciò è dimostrato dalle quote di tempo parziale involontario che sarebbe (dati 2011) del 12,8% in Danimarca, del 12,9% in Germania, del 12,2% il Gran Bretagna, del 21,9% in Svezia, mentre è pari al 39,6% in Italia, al 54,9 in Spagna, al 28,4% in Francia (che conferma il suo ruolo di frontiera). A noi questa rappresentazione statistica della realtà continua ad apparire singolare e non convincente, a meno di affrontare i problemi dell’occupazione femminile basandosi su propensioni culturali al confine di una sorta di antropologia territoriale all’interno del Vecchio Continente; peraltro, contravvenendo ad altre analisi che vedono la figura femminile più legata alle incombenze familiari al Sud che non al Nord. A nostro avviso, questa suddivisione tra part time volontario ed involontario si iscrive in un pregiudizio politico-culturale nei confronti dell’istituto rispetto ad un modello standard di full time, considerato ottimale e virtuoso, anche per l’occupazione femminile. Tale pregiudizio non spiega – lo scrivevamo all’inizio – come sia possibile che, laddove sono più evoluti i rapporti interpersonali, più qualificata la conciliazione, più diffusi i servizi per minori ed anziani (che in Italia latitano), più sviluppate le economie e più dinamici i mercati del lavoro, le donne lavorino, con tassi vicini o superiori ai due terzi, accettando volontariamente rapporti d’impiego part time.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT