OCSE: Italia, insisti sulla formazione. E quei cenni nel Jobs Act…

L’istruzione italiana è a un bivio. Da un lato il nostro Paese tende ancora a considerarsi un’economia vecchio stampo, generalista e di quantità, con la tentazione, accentuata dalla crisi economica e dal conseguente calo della domanda interna, di dedicare energie e risorse quasi esclusivamente alle esportazioni verso mercati più fiorenti. Dall’altro, non si sono affatto esaurite le spinte di chi insiste su un’economia della conoscenza, capace di competere su qualità ed abilità innovative con i player internazionali più moderni ed avanzati.
 
È in gioco anche il sistema dell’istruzione, in tutto questo? Sì, moltissimo, ed è quanto emerge dalla lettura dell’ultimo report Education at a glance pubblicato dall’OCSE nel mese di gennaio. Articolato in tre capitoli – livello di istruzione degli adulti, influenza del livello di istruzione sulla partecipazione al mercato del lavoro e transizioni scuola-lavoro – il report sembra delineare, con riferimento alla situazione italiana, un accostamento ad altre due economie: la Germania e, circostanza forse inusuale, il Messico. Poche ma significative le analogie tra i tre Paesi: alta industrializzazione, vocazione all’export e basso tasso di adulti in possesso di titoli di studio terziari (meno del 30%), titoli che corrispondono alla laurea o alla specializzazione tecnica post-diploma.
 
Il Messico ha alcune particolarità di rilievo: economia emergente e primo dei Paesi MINT (l’acronico che indica i “successori” dei BRICS, vale a dire Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), il vicino meridionale degli USA ha costruito il proprio successo sulle esportazioni (è il 15° esportatore mondiale) e su una forza lavoro molto conveniente, anche in termini economici. Non è però una forza lavoro che punta all’innalzamento del capitale umano: nella classifica dei Paesi con il più alto tasso di lavoratori privi di un titolo di studio secondario (un diploma, per intenderci, o una qualifica professionale) è al vertice, seguito dai Paesi mediterranei, tra cui il nostro, la Turchia, la Spagna ed il Portogallo. In Messico, la maggior parte della popolazione, il 52%, non arriva al secondo ciclo di studi, ma sembrerebbe non essere un problema: tra i giovani maschi (età 25-34 anni) con bassa istruzione, il tasso di occupazione supera addirittura il 90%. Dove invece si registra il massimo livello di disoccupazione, in controtendenza rispetto al resto delle economie OCSE, è tra i giovani con istruzione terziaria: il 7,9% – media OCSE: 5,3%.
 
Il confronto con l’Italia potrebbe partire da qui. Siamo tra i cinque paesi in cui questo tasso è più alto. Arriviamo addirittura a triplicare la media OCSE: 16%. Studiare in Italia non conviene? Stiamo replicando il sistema messicano? Assolutamente no, sarebbe semplicemente impossibile. L’economia italiana va alimentata sulla qualità, non sulle quantità. Anzitutto, per noi, il vantaggio occupazionale dei titoli di studio secondari e terziari sulla mancanza di qualifiche rimane comunque altissimo: rispettivamente, il tasso di occupazione è superiore di 20 e di 30 punti percentuali. Inoltre, pur non volendo dilungarsi in approfondimenti, basti considerare che il Messico ha il doppio della popolazione italiana e la metà dei costi energetici, più la possibilità di rifornire incessantemente il mercato dei consumisti per antonomasia, gli Stati Uniti d’America. La tentazione messicana è da scartare.
 
È sempre il report OCSE a dirci quali numeri cambiare: rispetto alla Germania, l’Italia ha una fetta in più, pari a 10 punti percentuali, di lavoratori non qualificati, sottratti alla quota di lavoratori in possesso di diploma di scuola secondaria superiore. Questo potrebbe dipendere dallo scarso sviluppo di un sistema di istruzione professionale competitivo, capace di dare immediata spendibilità sul mercato al titolo di studio, come suggerisce il fatto che, stando alle statistiche OCSE, la tendenza dei giovani in uscita dalla formazione superiore non professionale è quella di proseguire gli studi o di ingrossare le già abbondanti fila dei NEET – tra le quali si perde oltre il 30% dei giovani ambosessi tra i 20 ed i 24 anni.
 
Un altro campanello d’allarme viene dalla quota di studenti, tra i 15 ed i 29 anni, che lavora durante gli studi. In Italia sono meno di uno su venti. È stato provato da studi accademici che, per un giovane studente, un lavoro part time tra le 10 e le 19 ore settimanali influisce positivamente sia sulla carriera scolastica che su quella lavorativa, grazie soprattutto al rafforzamento delle competenze motivazionali e di gestione del tempo. In questo, la Germania è maestra: oltre un quinto degli studenti tedeschi è anche lavoratore. Di questi, la metà frequenta un percorso strutturato di alternanza scuola-lavoro, arrivando in circa la metà dei casi a conseguire titoli di studio lavorando oltre le 35 ore settimanali.
 
Conosciamo bene il segreto tedesco: è il sistema duale. L’OCSE evidenzia soprattutto due vantaggi legati al dual system: la promozione di buone prassi di partnership pubblico-privato ed il coinvolgimento totale di tutte le parti sociali nella stesura dei programmi formativi. In questo modo la Germania è riuscita ad evitare che una grossa parte della sua forza lavoro si fermi al primo ciclo di studi (quello equivalente alla nostra terza media), grazie appunto alla possibilità di veder riconosciuta da un titolo legale la formazione e l’esperienza acquisita sul campo. L’Italia rincorre questo modello da più di vent’anni, ma questa ossatura è ancora cartilagine. A ragione si ripete che sperimentazioni e ottime iniziative locali non mancano, ma serve un sistema che ne regga la crescita e la standardizzazione a livello nazionale.
 
Spunti interessanti potrebbero venire dall’attuazione del Jobs Act. La recente legge delega ad articolo unico, approvata lo scorso dicembre, esprime nello stesso comma 7 tanto la volontà di ricondurre «tutte le forme contrattuali [di lavoro] esistenti» verso una maggiore «coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale» quanto quella di rafforzare gli «strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro». Ricordando che la delega prefigura anche una riforma delle politiche attive del lavoro, comma 4, basterebbe intervenire su questi elementi per legittimare l’istituzione di un canale di apprendistato in alternanza scuola-lavoro realmente integrato nei curricoli scolastici a disposizione di quanti – e l’OCSE sembra dirci che non sono affatto pochi – volessero, lavorando, conseguire un titolo di studio.
 
Senza dimenticare il fondamentale punto 5 del documento programmatico La Buona Scuola, quello in cui si vuole l’istruzione e formazione del futuro “fondata sul lavoro”. A bocce ferme e in attesa dei decreti attuativi definitivi, queste idee restano solo accenni. Non lo sono invece, purtroppo, i dati allarmanti sulla perdita di competitività della nostra economia, aggravata soprattutto dall’impoverimento di capitale umano. Rispetto all’avanzamento tecnologico e organizzativo che si verifica su scala globale, la nostra forza lavoro è più vicina ad essere la concorrente povera delle nuove eccellenze manifatturiere che la valida partner delle economie della conoscenza. Eppure, con pochi colpi di lima, la soluzione sarebbe veramente a portata di mano.
 
Simone Caroli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@SimoneCaroli
 
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