Ora o mai più. Il futuro dell’economia italiana dopo la grande paura

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Bollettino ADAPT 29 novembre 2021, n. 42

 

Ho il piacere di presentare ai lettori del Bollettino ADAPT un mio libro (Ora o mai più. Il futuro dell’economia italiana dopo la grande paura) che discute di come l’Italia stia uscendo dall’esperienza del Covid.

Nel farlo in esso non ci si limita però a raccontare criticamente quanto accaduto durante la pandemia, in termini sanitari (cap. 2) ed economico-sociali (cap. 3). Si estende lo sguardo alle condizioni di partenza – al come eravamo prima del Covid, il quarto di secolo precedente in cui l’Italia aveva di fatto arrestato la sua crescita (cap. 1) – e alle possibili eredità e novità ascrivibili al Covid, in Italia e globalmente. Si parlerà di esse in termini generali (cap. 4) e con specifico riferimento ai piani di spesa delle ingenti risorse apportate dal Next Generation (NG) Fund europeo (cap. 5), una importante novità della politica economica europea, che per molti versi rappresenta una sorta di ultima occasione per l’Italia e per lo stesso processo di unificazione europea, entrato in crisi nel quindicennio precedente. Le fila dell’intero volume saranno brevemente tirate nel capitolo conclusivo (cap. 6), con una serie di considerazioni sul se e sul come questa “ultima occasione” possa davvero essere sfruttata.

 

L’attenzione al prima, al durante e al dopo il Covid vuole sottolineare il fatto che i problemi italiani non sono solo figli della pandemia. Essi hanno radici profonde e richiedono uno sforzo che vada al di là dell’emergenza causata dal Covid. Occorre tener conto delle novità di contesto evidenziate dal Covid e, al tempo stesso, rilanciare la crescita dell’economia italiana. Ciò anche al fine di rendere sostenibile il debito pubblico impennatosi col Covid. In un contesto di riduzione della popolazione – non sufficientemente compensata da migrazioni che l’Italia pre Covid aveva ben poco imparato a gestire e integrare – questo richiede di far crescere sia la produttività che il tasso d’occupazione. (..)

 

Ragionevolmente la politica economica si è dappertutto orientata in senso espansivo, evitando taluni errori del recente passato, quando le politiche fiscali avevano operato in senso pro-ciclico anziché fornire supporto a fronte di una congiuntura avversa. Per l’Italia, il prevalere in Europa di tali orientamenti, in ambito sia fiscale che monetario, ha evitato il rischio di avvitamenti, un esito non scontato se solo si rammentano le turbolenze emerse nei mercati finanziari nella prima metà del marzo 2020. Anche l’Italia ha così potuto fornire un ampio supporto fiscale a famiglie e imprese. Avrebbe potuto fare di più e meglio? Probabilmente no in termini di quantità complessive, atteso anche l’elevato livello pregresso del debito pubblico. Probabilmente sì da un punto di vista qualitativo, anche se va detto che molte criticità affondano in fattori strutturali pregressi: ad esempio è difficile usare l’apparato e i dati fiscali – in un mondo di piccole imprese e di alta evasione fiscale – per restituire in maniera efficiente ai contribuenti le imposte che essi avevano pagato in passato (o sarebbero stati chiamati a pagare in futuro).

 

L’aspetto più critico, soprattutto in prospettiva, è però il ritardo con cui si è iniziato a tener conto del fatto che il Covid non è un’alta marea che lascerà immutato il mondo dopo che si sia ritirata: sostenere indefinitamente imprese e attività che non siano solide e capaci di sopravvivere e di essere redditizie in quello che sarà un nuovo contesto, comporterebbe costi elevati per i conti pubblici e frenerebbe la necessaria riorganizzazione del sistema produttivo. Certamente si deve evitare che i sostegni, o ristori che dir si voglia, cessino prematuramente. Essi dovrebbero però sempre più favorire tale riorganizzazione e stimolare il rafforzamento organizzativo e finanziario delle imprese e il potenziamento delle infrastrutture del Paese, fisiche e digitali. Anche il supporto ai disoccupati dovrebbe spostarsi dal finanziare il “galleggiamento” dei rapporti di lavoro in essere – cosa che ha senso in via temporanea ma non indefinitamente – al favorire la transizione verso nuove occasioni lavorative. Sono questi gli ambiti sui quali l’Italia, e non da oggi, ha ancora gravi lacune e in cui la pesante crisi rischia semmai di favorire passi indietro: da un assetto moderno, ancorché incompleto, dei sussidi di disoccupazione, di recente riorganizzati nella Naspi, alle vecchie logiche degli interventi sine die della Cig.

 

Si è appena detto che il Covid non è una marea il cui rifluire possa far riapparire la solita spiaggia sottostante. Come tutti gli episodi di profonda crisi esso lascerà pesanti eredità (…). Più in generale, inoltre, il Covid, per la pervasività dei suoi impatti, ha fatto da innesco per una serie di possibili mutamenti del contesto strutturale dell’economia e della società, in Italia e non solo.

 

Non sempre l’esito dei processi in proposito avviatisi è già chiaramente identificabile, anche perché le possibili novità si muovono su più piani. Vi sono innanzitutto mutamenti negli assetti produttivi dei diversi settori, con l’ulteriore balzo in avanti delle attività digitali e del ruolo d’infrastruttura intermediatrice delle grandi piattaforme web. Sono poi in rapida evoluzione gli assetti organizzativi delle imprese, con la riscoperta della resilienza a fronte di vari shock e rischi, rispetto alla mera minimizzazione dei costi e delle inefficienze “statiche”, resilienza che spesso richiede il possesso di una dimensione aziendale minima sufficiente, un ulteriore elemento di sofferenza per le (spesso troppo piccole) imprese italiane. Sta inoltre profondamente cambiando il mercato del lavoro, con la scoperta delle potenzialità del cosiddetto lavoro a distanza, dai contorni peraltro diversi a seconda che riguardi le figure professionali alte e “creative” o quelle impiegate in attività più facilmente circoscrivibili e parcellizzabili.

 

Possibili riflessi si potranno avere anche su quelli che si potrebbero definire “equilibri spaziali”, ad esempio con il cosiddetto effetto “ciambella” sui valori dei suoli e degli immobili delle città, in crescita nelle zone semiperiferiche prossime al centro e in flessione in quest’ultimo. Probabilmente rimarranno invece le differenziazioni tra centri urbani di punta e centri minori, anche se non è da sottovalutare la possibilità di far rivivere le aree interne del territorio, progressivamente abbandonate negli ultimi decenni a causa dell’attrazione dei centri urbani, grazie allo svolgimento da remoto di attività comunque innovative e remunerative. La fine delle agglomerazioni urbane in quanto tali, e l’idea di un futuro in cui tutti lavoreranno dalle proprie case sparse diffusamente sul territorio, è una utopia (o distopia che dir si voglia) irrealistica. I vantaggi delle città in quanto luogo di agglomerazione e fucina di innovazioni rimarranno. Ciò che l’esperienza del Covid ha però evidenziato è come non sia impossibile, per una singola impresa, dislocare rapidamente ed efficacemente le proprie attività. La competizione tra città, in termini di loro appeal e di costi e disponibilità di spazi a buon mercato e infrastrutture che ne possano sostenere la crescita, sarà perciò probabilmente più intensa che in passato: sarà più difficile per una città che abbia ereditato dal passato un certo appeal riposarsi sugli allori e vivere di rendita.

 

Ma vi sono anche mutamenti negli assetti e negli indirizzi politici, sia a livello internazionale – dove la rivalità tra Usa e Cina, e il possibile, ma non scontato, rafforzamento dell’Europa unita potrebbero indurre non tanto una fine della globalizzazione quanto il rafforzamento di una logica di blocchi regionali e politici – sia nei singoli Paesi, con una generale riscoperta del ruolo essenziale dello Stato e delle politiche pubbliche. Questa riguarda il comparto sanitario – dove la pandemia ha mostrato l’importanza della prevenzione e del governo della salute pubblica rispetto alla mera fornitura di servizi di cura – ma anche l’economia e la società nel loro complesso – dove le politiche pubbliche avranno un insostituibile ruolo di guida nella transizione ecologica e digitale. Tale riscoperta comporterà un ulteriore vincolo alle possibilità di riduzione del carico fiscale complessivo, il cui riordino diviene perciò politicamente più difficile e complesso.

 

Per l’Italia e l’Europa un’importante novità nello scenario post Covid discenderà dal Fondo NG e dai Piani nazionali di ripresa e resilienza predisposti dai governi nazionali, per l’Italia dal da poco costituito governo Draghi (cap. 5). La risposta in Europa alla crisi è stata profondamente diversa rispetto al decennio precedente: più “comunitaria” e meno intergovernativa; più decisa e veloce nell’imprimere un orientamento coerentemente espansivo sia alla politica fiscale che a quella monetaria, che ha flessibilmente evitato l’esplodere di timori e tensioni nei mercati nazionali del debito pubblico. In questo quadro il NG dovrebbe in prospettiva garantire dai rischi di un prematuro riorientamento in senso restrittivo delle politiche fiscali nazionali – specie nei Paesi, come l’Italia, ad alto debito pubblico pregresso – e, al tempo stesso, aiutare i singoli Paesi a modernizzare il proprio sistema produttivo, adeguandolo alle sfide poste dal riscaldamento globale e dalla transizione digitale. Esso inoltre rappresenta un embrione di livello, e di logica, propriamente federali nelle politiche di bilancio continentali.

 

Questa sfida è stata pienamente colta dal piano predisposto dal governo Draghi, che manifesta consapevolezza della centralità della riuscita del piano italiano tanto per l’Italia – che deve tornare a crescere durevolmente, solo per tale via potendosi rendere pienamente sostenibile il proprio debito pubblico – quanto per i futuri sviluppi in senso federale dell’area dell’euro. Nel piano Draghi, il ritorno a una durevole crescita dell’economia italiana è legato alla realizzazione di importanti riforme (…). Poco esplicitati sono però i contenuti e gli indirizzi concreti di molte riforme, un tema su cui l’ampia maggioranza politica che supporta il governo rimane divisa. Poco maturo, e spesso schiacciato su slogan semplicistici, rimane il dibattito di policy nel Paese. Vi è il rischio che molte riforme non riescano ad andare oltre le pur indispensabili semplificazioni procedurali – e gli irrobustimenti e ricambi generazionali della compagine di una serie di amministrazioni pubbliche – necessari a una veloce spendita dei fondi del NG. Il cap. 6 tira le fila dell’intero libro. Vi si argomenta come per l’Italia si tratti di una ultima occasione, da non perdere ma difficile da cogliere e realizzare.
 
Paolo Sestito

Economista e dirigente della Banca d’Italia

 
Ora o mai più. Il futuro dell’economia italiana dopo la grande paura
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