Basta con la «totale economicizzazione della realtà». È il momento di riconquistare la «sovranità del tempo». Di questo parlerà, nel prossimo faccia a faccia con Angela Merkel, il capo dei metalmeccanici tedeschi Detlev Wetzel. Martedì, all’incontro di Meseberg tra i maggiori sindacati e il governo, ha intenzione di spiegare alla cancelliera che in Germania bisogna cominciare a riflettere su una riduzione dell’orario di lavoro.
Nel Paese simbolo della laboriosità, dove due secoli fa Lessing esortava, solitario e inascoltato, a «oziare in tutto, fuorché nell’amore e nel bere, fuorché nell’ozio», molti sondaggi testimoniano la voglia crescente dei tedeschi di riprendersi spazi per sé, di sacrificare un po’ di stipendio e di carriera per vivere meglio. È anche notizia di questi giorni che la Francia ha intenzione di muovere nella direzione opposta, di abbattere un baluardo del suo diritto del lavoro, le 35 ore.
In primavera, Frangois Hollande aveva preparato i suoi connazionali a una rivoluzione, annunciando il suo abbandono della fede socialista per quella socialdemocratica. E il premier Manuel Valls, prima dell’estate, aveva proclamato senza troppi giri di parole che «la sinistra può morire», anzi, che a ben vedere una certa sinistra dovrebbe morire.
Nell’ansia dì accreditarsi in Europa soprattutto a Berlino come Paese che anche attraverso la scelta di un ex banchiere come Ministro dell’economia vuole segnalare di essersi avviato seriamente sul sentiero delle riforme e del rigore, la Francia sacrifica una delle conquiste più famose degli ultimi vent’anni. Ma se a qualcuno può sembrare paradossale che il Paese che per un secolo, da Lafargue a Baudrillard, ha teorizzato il diritto all’ozio, cambi idea per seguire la Germania, il Paese che si sta convertendo in massa al tempo libero, dovrebbe dare un’occhiata ai dati. Spesso si citano le statistiche sui Paesi che lavorano di più; ed è vero che già ora, tanto per fare un esempio, i greci lavorano più dei tedeschi. Ma la domanda da porsi è: cosa producono, in quelle ore? Per dirlo in termini economici, quanto vale la produttività di un lavoratore tedesco rispetto a quella di un lavoratore greco, francese o italiano? Insomma, chi è che può permettersi di lavorare di meno?
Anzitutto, va ricordato che il cambiamento culturale in atto sull’orario di lavoro si combina con la tendenza di molte aziende tedesche di concedere, a volte addirittura di imporre il fine settimana «off» ai dipendenti, dandogli la possibilità di spegnere il computer e non rispondere alle mail fino a lunedì. Nella lingua di Goethe c’è una parola magnifica per descrivere il momento in cui si va a casa dopo il lavoro: è il «Feierabend», testuale: la «sera festosa». Di recente, il vicecancelliere socialdemocratico Gabriel lo ha rivendicato per sé, ha parlato di «diritto al Feierabend» per poter trascorrere più tempo con la sua famiglia. E molti tedeschi lo seguono. Secondo un sondaggio, quattro operai su cinque vorrebbero lavorare meno e un padre su tre sogna una settimana di 32 ore.
Guardando i dati, in particolare quelli elaborati degli economisti Alberto Bisin e Giulio Zanella, si scopre però che negli ultimi due decenni la produttività tedesca è aumentata molto più velocemente di quella degli altri Paesi europei. Nel 1996, il valore aggiunto per ora lavorata nell’industria era di circa 33 euro in Germania, più o meno l’equivalente in Francia, ossia 32 euro, molto meno in Italia: 23 euro. Nel 2011, il valore aggiunto tedesco ha raggiunto quasi i 54 euro, distaccando nettamente la Francia (circa 42 euro), per non parlare dell’Italia (34 euro). Insomma, se la Germania discuterà sulla riduzione dell’orario di lavoro, è anche perché può permetterselo più di altri.