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L’articolo 14, comma 1, della L. 30 ottobre 2014, n. 161, pubblicata nella G.U. n. 261 del 10 novembre 2014 ed entrata in vigore il 25 novembre 2014, ha disposto l’abrogazione, con decorrenza 25 novembre 2015, delle norme contenute nel comma 6 bis dell’articolo 17 del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 e nell’articolo 41, comma 13, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella L. 6 agosto 2008, n. 133, che stabilivano la disapplicazione nei confronti del personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale delle disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del D.Lgs. 66/2003, in materia di durata massima dell’orario di lavoro e di riposo giornaliero.
Con nota del 22 luglio 2015, indirizzata alle Aziende ed Enti del SSR, la Regione del Veneto ricordava i contenuti della norma citata ed invitava le aziende che avessero stipulato accordi integrativi aziendali e/o assunto provvedimenti che prevedevano una disciplina dei riposi e dell’orario di lavoro difforme da quella prevista dagli articoli 4 e 7 del D.Lgs. 66/2003 ad adottare tutte le misure organizzative idonee a garantire il funzionamento dei servizi e l’erogazione delle prestazioni assistenziali, invitando nel contempo a segnalare, con la massima tempestività, in funzione anche dell’eventuale adozione dei provvedimenti regionali previsti dal comma 2 dell’articolo 14 della L. 161/2014, possibili criticità derivanti dall’applicazione del comma 1 dell’articolo citato. Va peraltro sottolineato che Regioni e Province autonome, e conseguentemente anche le aziende ed enti del SSN, dovevano e devono far fronte alle esigenze determinate dall’applicazione della normativa senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.
In relazione alla predetta richiesta sono pervenute da parte delle aziende alcune note ove sono state evidenziate difficoltà di ordine organizzativo e strutturale che non avrebbero consentito di garantire ai lavoratori le undici ore di riposo consecutivo nell’arco delle ventiquattro ore e, in alcuni casi riferiti essenzialmente alla dirigenza medica, anche ad assicurare la durata massima settimanale di quarantotto ore dell’orario di lavoro. Peraltro è stato sottolineato che le anzidette difficoltà avrebbero potuto acuirsi o ridursi a seconda dell’interpretazione di alcune disposizioni del D.Lgs. 66/2003 o dell’estensione di alcuni concetti dallo stesso enunciati.
In particolare è stato chiesto di chiarire:
a) se ai fini del computo delle undici ore di riposo e delle quarantotto ore di orario massimo settimanale l’attività prestata in regime di libera professione vada computata all’interno dell’orario di lavoro e se debba distinguersi tra le varie tipologie di attività libero professionale;
b) se in caso di assenza improvvisa che non consenta il rispetto del riposo giornaliero di cui all’articolo 7 del D.Lgs. 66/2003 il periodo di riposo non fruito possa essere portato ad incremento di quello settimanale di cui all’articolo 9 dello stesso decreto;
c) quale sia l’arco temporale di ventiquattro ore su cui calcolare il riposo;
d) come vada inteso l’articolo 7, comma 1, secondo periodo del D.Lgs. 66/2003, secondo cui “il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità” ed in particolare:
-
- se le ore di pronta disponibilità debbano essere considerate lavorative;
- in caso di risposta negativa, se l’attività prestata dal personale in pronta disponibilità a seguito di chiamata interrompa o sospenda la consecutività del riposo giornaliero;
- quali siano i periodi di lavoro frazionati;
e) se la contrattazione collettiva, attraverso la quale il D.Lgs. 66/2003 consente di derogare ad alcune sue disposizioni, sia quella nazionale ovvero quella aziendale;
f) se i turni di guardia rientrino o meno nell’attività lavorativa;
g) quale sia il limite massimo della prestazione lavorativa giornaliera.
Giova preliminarmente ricordare che l’orario di lavoro è un aspetto fondamentale della disciplina del lavoro perché la definizione dell’orario delimita l’oggetto del contratto e l’orario di lavoro è uno degli aspetti del contratto sul quale la Costituzione si sofferma (art.36), stabilendo il principio per cui i tempi di vita e i tempi di lavoro devono essere chiaramente distinti. Qualora tale distinzione non risulti chiaramente individuata la dignità della persona rischia di essere lesa. I principi in materia di limite dell’orario di lavoro sono stati peraltro da ultimo recepiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea all’articolo 31.
Il rispetto di limiti d’orario condiziona però anche la sicurezza del lavoratore, dei suoi colleghi e in generale di coloro che sono in contatto col lavoratore. Il legame fra disciplina dell’orario e protezione della sicurezza sul lavoro risulta con estrema chiarezza dalla disciplina comunitaria. Gli ambiti di applicazione delle direttive su orario e sicurezza del lavoro (Direttiva 89/391/CEE) sono gli stessi della Direttiva 2003/88/CE in materia di orario di lavoro (art. 1.3) e le norme operative contenute nella Direttiva 89/391/CEE sulla sicurezza trovano applicazione, se non derogate espressamente, anche per attuare la Direttiva 2003/88/CE (art. 1.4) in materia di disciplina dell’orario, come ad esempio in materia di diritti di informazione e consultazione, e di controlli.
Per ragionare in materia di orario è però innanzitutto necessario intendersi su cosa sia il tempo di lavoro. Ai sensi dell’art. 1, secondo comma, lett. a) del D.Lgs. n. 66 del 2003 e dell’art. 2 della Direttiva n. 2003/88/CE orario di lavoro è qualsiasi periodo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. La Corte di giustizia da sempre rivendica il diritto di interpretare il concetto di orario di lavoro e non lascia margini agli stati membri per interpretazioni diverse.[1] Parimenti sostiene che non esistono categorie intermedie fra tempo di lavoro e riposo.[2] Ancora per il giudice comunitario, il lavoro anche discontinuo (on-call) tipico dei servizi di guardia, che comporti la permanenza del lavoratore in azienda o in altro luogo individuato dal datore di lavoro, va considerato interamente come orario di lavoro[3], né la Direttiva autorizza gli stati membri a costruire sistemi di equivalenza di orario pesando le ore in attività discontinue al fine di convertirle in lavoro continuativo[4] (Vorel, C-437/05, 11,1,2007, paragrafi 27 e 28).
Nel settore del lavoro pubblico la disciplina dell’orario di lavoro è affidata alla contrattazione collettiva, regolata dal D.Lgs. n. 165 del 2001. È noto peraltro che il contratto collettivo nel settore pubblico è efficace nei confronti di tutti i lavoratori del comparto o dell’area al quale il contratto di riferisce e che la contrattazione individuale è ammessa solo sulla base di rinvio ad opera del contratto collettivo e nelle materie per le quali opera il rinvio.
Sulla materia in questione l’amministrazione regionale non dispone di specifiche competenze. In particolare non è legittimata a dare indicazioni circa la riconducibilità o meno dei periodi di attività resi in regime di libera professione all’interno dell’orario di lavoro potendo esprimersi al riguardo solo il legislatore statale, la contrattazione collettiva nazionale o i soggetti istituzionalmente competenti per materia (in primis il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali).[5]
Con nota del 6 novembre 2015 la Regione del Veneto – Area Sanità e Sociale ha in ogni caso ritenuto utile fornire alle Aziende ed Enti del SSR alcuni chiarimenti alle questioni sollevate, sulle quali peraltro si erano già espresse la circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 8/2005 e alcune specifiche note ed interpelli.
Innanzitutto sul tema delle attività rese in regime di libera professione si è considerato di poter affermare – nonostante quanto affermato precedentemente in merito alle competenze regionali -, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prestazioni richieste dalle aziende allo scopo di ridurre le liste di attesa o di acquisire prestazioni aggiuntive, ex articolo 55, comma 2 dei CC.CC.NN.LL. delle aree dirigenziali dell’8.06.2000, debbano essere considerate ai fini del computo della durata massima dell’orario di lavoro e del riposo giornaliero, in quanto, se pur formalmente di natura libero professionale, tali prestazioni, oltre ad essere strettamente correlate alle funzioni istituzionali dell’ente e ad essere poste a carico del SSN, costituiscono, nella sostanza, una prosecuzione della normale attività dei dirigenti medici e sanitari interessati. Analoghe considerazioni possono essere fatte per le prestazioni aggiuntive richieste agli infermieri ed ai tecnici sanitari di radiologia medica ex L. 1/2002.
Vediamo pertanto di ricordare quanto già chiarito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e da talune sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e che è stato ribadito nella nota citata.
Arco temporale su cui calcolare il riposo
La circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 8/2005 ha specificato che le undici ore di riposo consecutivo ogni 24 ore vanno calcolate “dall’ora di inizio della prestazione lavorativa”. Ne consegue che il riposo può intercorrere anche tra periodi lavorativi svolti in giornate diverse.
Incidenza sul computo del riposo dei turni di pronta disponibilità e dell’orario frazionato
Il periodo di reperibilità dei dipendenti non è conteggiabile nell’orario di lavoro in quanto, come evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia[6], elementi caratteristici della nozione “orario di lavoro” sono la presenza fisica nel luogo indicato dal datore di lavoro e l’esercizio delle funzioni proprie del lavoratore interessato, elementi non rinvenibili nella c.d. pronta disponibilità passiva.
Diversamente si porrebbe la questione nei casi di pronte disponibilità “anomale” ove il lavoratore è fisicamente presente nel luogo di lavoro ed è immediatamente a disposizione del datore di lavoro per lo svolgimento della sua opera. In questi casi, secondo quanto chiarito dalla citata giurisprudenza, devono invece ritenersi sussistenti gli elementi caratterizzanti l’orario di lavoro.
È di immediata evidenza, invece, che devono considerarsi rientranti nell’orario di lavoro le prestazioni effettuate a seguito di chiamata. Le stesse prestazioni, peraltro, sospendono e non interrompono il periodo di riposo, attesa la deroga all’obbligo della sua consecutività che il secondo periodo dell’articolo 7, comma 1, del D.Lgs. n.66/2003 prevede per le attività caratterizzate da regimi di reperibilità. Pertanto, al termine della prestazione lavorativa resa, non si dovrà riconoscere un altro periodo completo di riposo, bensì un numero di ore che, sommate a quelle fruite precedentemente alla chiamata, consentano il completamento delle undici ore di riposo complessivo.
Anche il riposo correlato al lavoro frazionato, ai sensi della predetta previsione legislativa, non deve essere fruito in modo consecutivo e, secondo quanto chiarito dalla circolare del Ministero del Lavoro 8/2005, “sarà la contrattazione collettiva a disciplinare le più opportune modalità di fruizione del riposo giornaliero”. Naturalmente perché si possa parlare di orario frazionato vi deve essere un adeguato intervallo tra i due (o più) periodi lavorativi, comunque, di durata superiore alle due ore considerato che, come precisato dalla stessa circolare ministeriale, le pause di lavoro possono raggiungere tale durata.
Deroghe al D.Lgs. 66/20003 da parte della contrattazione collettiva
Il D.Lgs. 66/2003 attribuisce in più occasioni alla contrattazione collettiva il potere di prevedere prescrizioni attuative ovvero deroghe a disposizioni contenute nello stesso decreto (si vedano gli artt 3, comma 2, 4, comma 4; 8, comma 2; 5, comma 2; 9, comma 2, lett. d); 10, comma 3; 11, comma 2; 13, comma 1; 17, comma1). Al riguardo si evidenzia che l’articolo 17, comma 1, del decreto in commento consente deroghe alle disposizioni di cui agli articoli. 7, 8, 12 e 13, in materia, rispettivamente, di riposo giornaliero, pause, modalità di organizzazione del lavoro notturno e durata del lavoro notturno, esclusivamente alla contrattazione collettiva nazionale (in realtà l’articolo 13 consente anche alla contrattazione integrativa di prevedere deroghe al periodo di 24 ore su cui calcolare il limite di otto ore dell’orario di lavoro dei lavoratori notturni). Ne consegue che in tutti gli altri casi “il rinvio alla contrattazione collettiva deve intendersi come rinvio a tutti i possibili livelli di contrattazione collettiva” (v. punto 2 della circolare ministeriale 8/2005). Come ricordato all’inizio del presente contributo della facoltà di deroga nel settore dell’area medica e sanitaria è stato fatto uso e le deroghe risultavano dagli articoli 17, comma 6 bis del D. lgs. n. 66 del 2003 e dall’articolo 41, comma 13, del D.L. n. 112 del 2008 convertito nella legge n. 133 del 2008. La legge permetteva di non applicare la regola delle 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore e consentiva di superare le 48 ore settimanali di lavoro attribuendo alla contrattazione collettiva il compito di definire le modalità atte a garantire ai dirigenti dell’area sanitaria protezione adeguata e il recupero delle energie psicofisiche. Nel 2012 la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione a carico della Repubblica italiana (n. 2011/4185) per l’esclusione del personale medico dai diritti previsti dalla Direttiva 2003/88 perché l’Italia ha utilizzato la facoltà di deroga alla regola del riposo continuativo di 11 ore consentita dalla Direttiva all’articolo 17, comma 1, considerando tutti i medici dell’area sanitaria come dirigenti, come personale cioè dotato di potere di decisione autonomo per godere di una delle facoltà di eccezione concesse dalla Direttiva. Conseguenza della procedura europea di contestazione è stata l’abrogazione della norma che applicava nel diritto interno l’eccezione al principio del riposo continuativo pari a 11 ore ogni 24 per l’area medica, e la caducazione delle norme dei contratti collettivi che regolavo il riposo giornaliero a fare data dal 25 novembre 2015 (art. 14, comma 1, l. 161 del 2014).
Turni di guardia
I turni di guardia devono considerarsi a tutti gli effetti periodi lavorativi. Infatti, come precisato dalle citate sentenze Jaeger e Simap, elementi caratteristici della nozione “orario di lavoro” ai sensi della normativa comunitaria sono per il lavoratore da un lato la presenza fisica nel luogo indicato dal datore di lavoro e dall’altro il suo obbligo di tenersi a disposizione di quest’ultimo per l’esercizio delle proprie funzioni, elementi entrambi rinvenibili nel servizio di guardia. La sentenza Jaeger precisa altresì che si è in presenza di “orario di lavoro” anche se “il datore di lavoro mette a disposizione del medico una stanza in cui quest’ultimo può riposare quando non è richiesto il suo intervento professionale”.
Limite massimo della prestazione lavorativa giornaliera
La durata massima della prestazione lavorativa giornaliera si ricava in negativo, quale differenza tra la giornata di 24 ore e le undici ore di riposo obbligatorio di cui all’articolo 7 del D.Lgs. 66/2003. Al risultato così ottenuto vanno detratti i 10 minuti di pausa obbligatoria minima di cui al successivo articolo 8 dello stesso decreto. Pertanto la durata massima dell’orario lavorativo giornaliero è pari a dodici ore e cinquanta minuti.
Premesso quanto sopra, in considerazione delle difficoltà che le disposizioni introdotte dall’articolo 14 della L. 161/2014 hanno determinato, soprattutto ai fini del rispetto della durata del riposo giornaliero, La Regione del Veneto ha autorizzato le aziende ad assumere autonomamente, a tempo indeterminato, nei limiti del turn over riferito alle cessazioni intervenute dal 1 luglio 2015 al 31 dicembre 2016, senza necessità di ulteriori richieste, il personale di tutti i profili del Comparto del ruolo sanitario e tutti gli operatori socio sanitari e gli operatori tecnici autisti di ambulanze, consentendo altresì, in relazione alle assenze per maternità, malattie lunghe e aspettative a vario titolo, di disporre assunzioni dell’anzidetto personale a titolo di supplenza.
È stato peraltro precisato che tutte le assunzioni di cui sopra potessero essere effettuate nei limiti dei tetti di spesa per il personale stabiliti dall’amministrazione regionale.
Si è previsto inoltre che le assunzioni del personale dirigenziale medico, veterinario e sanitario, in considerazione della loro specificità, quando motivate dall’obbligo di dare applicazione al disposto dell’art. 14, co.1, Legge 161/2014 dovessero essere supportate da opportune motivazioni nonché dall’indicazione delle misure strutturali adottate per garantire il funzionamento dei servizi e l’erogazione delle prestazioni assistenziali.
In particolare le aziende hanno dovuto rappresentare e dimostrare in un’apposita relazione del Direttore Sanitario l’impossibilità di ovviare alle rappresentate criticità dando atto di aver operato:
a) procedure di mobilità interna;
b) l’adeguamento dei turni e dei piani di lavoro sia in funzione dell’applicazione delle schede di dotazione ospedaliera di cui alla DGRV n. 2122/2013 sia avvalendosi della possibilità di operare razionalizzazioni, anche consistenti nella riduzione della presenza del personale medico al mattino, ferma restando la garanzia dell’assistenza all’utenza;
c) la conversione, nell’ambito dei piani per assicurare le emergenze e nel rispetto del livello di relazioni sindacali contrattualmente previsto, delle guardie attive in turni di pronta disponibilità sostitutiva, qualora, in relazione ai livelli di attività resi dalle strutture si possa ragionevolmente presumere un numero limitato di chiamate e di prestazioni per turno di pronta disponibilità;
d) l’attivazione, sempre nell’ambito della procedura di cui al punto c), della guardia “interdivisionale” o per area omogenea, laddove non è prescritta la guardia medica di unità operativa ai sensi dell’allegato 2 al CCNL del 3.11.2005;
e) laddove l’azienda disponga di due o più presidi ospedalieri, la concentrazione di determinate attività presso un’unica sede.
Una riflessione finale si impone sul tema dell’esercizio da parte della dirigenza medica dell’attività libero professionale cd. “intramoenia”.
Le modalità di attività libero professionale intramuraria sono regolate dal Decreto legislativo n. 502 del 1992 che rinvia alla contrattazione collettiva cosicché si ha:
1) Libera professione su domanda dell’utenza e svolta all’interno della struttura sanitaria del datore di lavoro (art. 55, comma 1, lett. a, b);
2) Libera professione su richiesta del datore di lavoro a seguito di convenzione stipulata da quest’ultimo con altre aziende sanitarie o soggetti privati e svolta presso terzi (art. 55, comma 1, lett. c);
3) Libera professione su richiesta del datore di lavoro da svolgere anche per consentire la riduzione dei tempi d’attesa (art. 55, comma 1, lett. d);
4) Libera prestazione su richiesta del datore di lavoro, da svolgere presso lo stesso o terzi, per la quale il medico richieda sia considerata intramoenia o obiettivo prestazionale incentivato (art. 59, comma 9.
La legge consente poi limitatamente attività extramoenia (art. 15, sexies, D. lgs., n. 502 del 1992).
L’attività intramuraria è un’attività definita espressamente come libero professionale che si svolge però sotto il controllo e con partecipazione alla remunerazione da parte del datore di lavoro, cioè l’azienda sanitaria. Le varie ipotesi di attività sono caratterizzate dalla presenza di un particolare potere di coordinamento da parte del SSN che ne stabilisce i limiti quantitativi, che partecipa alla definizione delle tariffe, che definisce il luogo della prestazione e che trattiene parte delle somme pagate dai pazienti, e che nella maggiore parte dei casi fornisce attrezzature e assistenza per lo svolgimento dell’attività. Dal punto di vista sostanziale, per quanto attiene alle modalità di esecuzione della prestazione medica, non vi è differenza fra il modo con il quale l’attività intramoenia è svolta e il modo con il quale la prestazione istituzionale è erogata. Tutto ciò premesso, il legislatore nazionale è libero di qualificare le prestazioni effettuate dal medico, e dunque la legge italiana sembrerebbe non essere in contrasto con il limite dell’orario settimanale nel momento in cui le prestazioni eccedenti le 48 ore settimanali sono rese in regime “intramoenia”.
Non è detto però che il punto di vista della legge nazionale coincida con il punto di vista del diritto comunitario che è sovrano nel delimitare l’ambito di applicazione delle direttive stabilendo dunque chi sia lavoratore al fine di circoscrivere l’area di applicazione delle proprie norme.[7] La conseguenza è che la configurazione del lavoro intramoenia come lavoro autonomo non esclude la possibilità che la Corte di giustizia possa assoggettare le prestazioni erogate in tale contesto alle regole comunitarie in materia di orario di lavoro, specialmente nei casi in cui la prestazione intramoenia si svolge nel medesimo contesto aziendale nel quale il medico presta il proprio normale servizio.
La questione è stata sottoposta dalla Regione del Veneto all’attenzione della competente Direzione Generale della Commissione Europea la quale si è riservata di approfondire le particolarità dell’istituto della libera professione intramuraria, sia dal punto di vista della sua configurazione giuridica che delle sue concrete modalità organizzative.
La Commissione non ha ancora riscontrato la richiesta
Sul piano comunitario, va segnalata la recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha affermato che “le ore di guardia che un lavoratore trascorre al proprio domicilio con l’obbligo di rispondere alle convocazioni del suo datore di lavoro entro 8 minuti, obbligo che limita molto fortemente le possibilità di svolgere altre attività, devono essere considerate come «orario di lavoro»” (CGUE Corte di Giustizia UE, Quinta Sezione, sentenza 21 febbraio 2018, causa C-518/15).
La pronuncia impone una verifica caso per caso del tempo concesso al lavoratore per l’intervento ai fini della valutazione della sua posizione di “attesa” come “orario di lavoro” o meno, non essendo quindi in via generale escluso il computo come tale (orario di lavoro) anche una condizione di attesa della chiamata al di fuori del luogo di lavoro.
Domenico Mantoan
Direttore Generale Area Sanità e Sociale Regione del Veneto
Claudio Costa
Direttore Direzione Risorse Strumentali SSR – CRAV Regione del Veneto
Franco Botteon
Direttore Unità Organizzativa Controlli Governo Crite Regione del Veneto
Giorgio Rizzardi
Funzionario Direzione Risorse Strumentali SSR – CRAV Regione del Veneto
[1] Dellas C-140/04 del 1.12.2005 paragrafi 44-45 ove sono contenuti ulteriori rinvii alla giurisprudenza comunitaria.
[2] Simap C-303/98 del 3 ottobre 2000, paragrafi 42-43.
[3] Jaeger C-151/02 del 9 settembre 2003, paragrafi 63, 65, 69; Pfeiffer C-389/01 del 15.10.2004, paragrafo 93.
[4] Vorel, C-437/05 del 11 gennaio 2007, paragrafi 27 e 28.
[5] Sulla questione si è espressa con parere del 29 febbraio 2016 la Direzione Interregionale del Lavoro di Milano affermando che “si esclude la sussistenza dell’obbligo in alvei diversi dalla subordinazione”.
[6] Jaeger e Simap cit.
[7] Isère C-428/09 del 14 ottobre 2010, par. 27.