Mentre imperversa sui giornali e i social il dibattito sull’orario di lavoro quale strumento non più adatto a misurare il lavoro moderno perché riferito ad un modo di concepire la prestazione lavorativa antico e non più calzante con le modalità di operare dei nostri tempi, nel settore sanitario si cerca di far tornare i conti con orari, turni di lavoro e riposi.
Infatti l’orario di lavoro per alcuni settori, tra cui quello sanitario, rappresenta un parametro decisivo non solo e tanto per la misurazione della prestazione lavorativa ma per le ripercussioni che tempi di lavoro troppo lunghi possono avere sulla sicurezza e cura dei pazienti, sulla qualità delle prestazioni offerte e, soprattutto, sulla salute e sicurezza del personale (costituito in larga percentuale da donne e da lavoratori con un’età anagrafica media più alta rispetto ad altri settori pubblici), permettendo di conciliare vita-lavoro e condizionando benessere, motivazione e impegno profuso dai lavoratori.
Dal 25 novembre 2015 è entrato in vigore l’art. 14 della legge n. 161/2014 che – a fronte della procedura di infrazione dell’Unione Europea n. 2011/4185 – ha abrogato il comma 13 dell’art. 41 del d.l. n. 112/2008 convertito con modificazione dalla l. n. 133/2008 (che derogava per il personale dirigente medico la disciplina generale del riposo giornaliero e della durata massima dell’orario di lavoro settimanale di media non superiore alle 48 ore) e il comma 6-bis dell’art. 17 del d.lgs. n. 66/2003 (che derogava la disciplina dell’orario di lavoro giornaliero a tutto il personale del ruolo sanitario). In questo modo, per tutti i lavoratori del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale viene riallineata la normativa in materia di orario di lavoro e le disposizioni sulla durata dei riposi giornalieri, settimanali e annuali alle categorie lavorative degli altri settori e a quelle del settore sanitario degli altri paesi comunitari.
Non solo. L’art.14 co. 3 della l. n. 161/2014 dispone inoltre che «nelle more del rinnovo dei contratti collettivi vigenti, le disposizioni contrattuali in materia di durata settimanale dell’orario di lavoro e di riposo giornaliero … cessano di avere applicazione a decorrere dalla stessa data».
Così torna ad essere pienamente applicata al settore sanitario la legge che ha ridefinito in maniera organica tutta la materia sull’orario di lavoro (d.lgs. n.66/2003 così come modificato dalla l. n. 133/2008) prevedendo un riposo giornaliero continuativo minimo di 11 ore (ogni 24 ore), un orario settimanale di lavoro massimo di media non superiore alle 48 ore (compreso lo straordinario), un riposo settimanale di 24 ore consecutive (da cumulare con le 11 ore di riposo consecutivo giornaliero) e un riposo annuale di almeno 4 settimane.
Nello specifico, l’art. 41 comma 13 del d.l. n. 112/2008, oggi superato, prevedeva che al personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, «in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 2003, n. 66, derogando alla contrattazione collettiva la definizione delle modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche». In ogni caso, non necessitava dell’accordo di contrattazione integrativa la gestione dei riposi nelle unità operative dove è attiva la reperibilità e in cui il riposo di undici ore consecutive è automaticamente frazionato. In tali ambiti, pertanto, l’attesa in reperibilità – sebbene disagiata – viene considerata riposo e si somma, pur se in modo frazionato, all’ulteriore tempo di riposo maturato nelle ventiquattro ore, escludendo il tempo di lavoro reso a seguito di chiamata.
Il co. 6-bis dell’art. 17 del d.lgs. n. 66/2003, introdotto con la finanziaria del 2008, anch’esso oggi superato, prevedeva invece che le disposizioni di cui all’articolo 7 della stessa norma non si applicassero a tutto «il personale del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, per il quale si fa riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei princıpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori». Ovvero l’art. 5 del CCNL del 10/04/2008 – area comparto sanità – prevedeva che, in via sperimentale e per le necessità legate all’organizzazione dei turni, il riposo consecutivo di undici ore (ai sensi dell’articolo 7, co. 1, del d.lgs. n. 66/2003) potesse essere oggetto di deroga, a seguito di accordo di contrattazione collettiva integrativa aziendale con le organizzazioni sindacali e la RSU aziendale, con le modalità previste dall’articolo 4, comma 5, del CCNL del 07/04/1999. La deroga poteva intervenire per le necessità funzionali delle unità operative. L’applicazione di tale deroga presupponeva (come ribadito dal comma 9 dell’art. 5 CCNL 10/04/2008) che ai lavoratori interessati fosse comunque accordata una, non meglio definita, protezione appropriata «tale da evitare che gli stessi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine». A decorrere dalla stessa data del 25 novembre 2015, con il co. 3 dell’art.14 della l. n. 161/2014 anche tali deroghe contrattuali cessano di avere applicazione.
In questo modo si chiude il capitolo delle deroghe che dal 2008 avevano permesso alle aziende sanitarie di non applicare – senza incorrere in sanzioni amministrative – la direttiva europea n. 88/2003 sull’orario di riposo e di lavoro dei medici e sanitari dipendenti e che, di fatto, avevano dato la possibilità alle aziende sanitarie di superare le persistenti carenze di personale dovute al blocco delle assunzioni ed imposte dalle politiche di austerity di questi anni di crisi.
Le modifiche necessarie per l’adeguamento, precisa ancora la l. n. 161/2014, devono avvenire senza costi aggiuntivi, garantendo comunque i servizi per i pazienti, attraverso una allocazione più efficiente delle risorse umane disponibili e prevedendo processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture e dei servizi.
In qualche modo, l’entrata in vigore della norma (con il richiamo dell’Unione Europea) evidenzia quanto ancora sia importante e necessario – pur con la previsione di differenti meccanismi di flessibilità per tener conto delle peculiarità che caratterizzano i diversi settori e tipologie di lavoratori nei differenti paesi – assicurare a tutti i lavoratori una protezione minima contro orari di lavoro eccessivi e contro il mancato rispetto di periodi minimi di riposo che mettono a rischio la salute dei lavoratori stessi (a tal riguardo si rinvia all’analisi pubblicata su Il Sole 24 Ore Sanità, Il lavoro ai tempi del burnout, novembre 2014).
Questo è ancora più vero nel settore socio-sanitario dove le ricadute del malessere organizzativo del personale ricadono inevitabilmente sui pazienti. Questo è ancora più evidente nel settore sanitario, settore che offre una valida esemplificazione dell’ulteriore dualismo emergente nel mercato del lavoro e della crescente necessità di tutele minime per tutti i lavoratori, indipendentemente dallo status giuridico e contrattuale: un mercato del lavoro formato, da una parte, da lavoratori subordinati, per i quali l’orario di lavoro rappresenta ancora il fondamentale parametro retributivo della prestazione lavorativa e, soprattutto, la garanzia per la tutela della salute psico-fisica e, dall’altra, da un numero crescente di lavoratori in regime libero professionale ai quali difficilmente è estensibile la disciplina dell’orario di lavoro per la stessa natura della loro prestazione (ai sensi degli artt. 2229 e seguenti del codice civile). Infatti la scelta sui tempi di lavoro è la tipica espressione del potere datoriale di organizzare l’attività produttiva mentre per il professionista dovrebbe rappresentare una libera scelta su quando e quanto lavorare che andrebbe comunque monitorato per le inevitabili ripercussioni che si possono avere sulla salute psico-fisica.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@VialeGabry