Orario di lavoro: fra timbratura e log on/log off, riflessioni a margine di una recente ordinanza della Cassazione

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Bollettino ADAPT 15 luglio 2024 n. 28
 
Con l’ordinanza n. 14848/2024, confermando un orientamento nazionale ed europeo ormai consolidato, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad una questione che, nel recente passato, ha dato luogo a pareri discordanti, ovvero se il tempo impiegato dal lavoratore per timbrare il cartellino e per accendere il computer al lavoro, il c.d. log on, e quello per spegnerlo al termine della giornata, il c.d. log off, vadano considerati come orario di lavoro da retribuire o meno.
 
Al quesito ha dato risposta la Sezione Lavoro della Cassazione, che il 28 maggio 2024 ha respinto il ricorso presentato da una nota società di telecomunicazioni contro la decisione della Corte d’Appello di Roma, la quale in precedenza e differentemente dal giudice di primo grado, aveva riconosciuto l’eterodirezione e la dipendenza dei tre lavoratori ricorrenti (e conseguentemente anche il loro diritto alla retribuzione) relativamente a tutto l’arco temporale della prestazione, comprensivo dei segmenti temporali dedicati al log on e al log off.
 
Risultata soccombente davanti alla Corte d’Appello, la società ha impugnato la sentenza presso la Cassazione, affermando l’insussistenza del suddetto vincolo di eterodirezione per quegli specifici segmenti temporali e lamentando l’errata interpretazione della sentenza di merito nella parte in cui aveva considerato come tempo di lavoro anche le operazioni anteriori all’inizio o posteriori alla conclusione della prestazione lavorativa.
 
Per comprendere le ragioni che hanno indotto l’Alta Corte a ritenere infondato il ricorso, è opportuno effettuare una rapida panoramica dei principali profili di diritto e giurisprudenziali toccati dal caso di specie.
 
In particolare, la decisione della Corte muove dalle consolidate interpretazioni adottate in sede comunitaria nelle direttive nn. 93/104 e 203/88 nonché dalla contestuale e corrispondente giurisprudenza nazionale in materia (si veda, da ultimo, Cass. n. 27008/2023). Entrambe, infatti, ritengono che il tempo di lavoro retribuito non comprenda solo le ore di lavoro effettive, ma anche quelle necessarie per le operazioni accessorie e preliminari, qualora queste siano “necessarie e obbligatorie”.
 
Questo ovviamente include anche il più famoso “tempo tuta”, (in proposito si veda I. Moscaritolo, Orario di lavoro e tempo tuta: la Cassazione si pronuncia nuovamente sul tema, in Bollettino ADAPT 18 marzo 2019, n. 11 e, più di recente,  A. Zaniboni, Tempo-tuta, orario di lavoro e retribuzione: un nuovo orientamento giurisprudenziale, in Bollettino ADAPT 11 dicembre 2023, n. 43) e, in generale, tutti i segmenti temporali spesi all’interno dell’azienda per attività che, pur non essendo direttamente legate all’esecuzione delle mansioni assegnate, sono richieste dalla struttura organizzativa del datore di lavoro.
 
La giurisprudenza lavoristica, oggi come in passato, non ha mai smesso di interrogarsi sulle controversie sorte relativamente al “tempo tuta” e agli altri segmenti strumentali della prestazione, esaminando non solo i tempi di vestizione-svestizione del lavoratore, ma anche tutte le attività prodromiche e necessarie all’espletamento delle mansioni.
 
Di ciò ne sono piena testimonianza le numerose sentenze sul tema che dagli anni Settanta ad oggi si sono focalizzate su quale parte della prestazione di lavoro possa essere considerata “lavoro effettivo” e quale ne sia esclusa.
 
Questa controversia ha trovato una soluzione definitiva nelle pronunce ormai consolidate della giurisprudenza di legittimità che, risolvendo i diversi e ricorrenti dubbi interpretativi, hanno sancito l’annessione alla prestazione di lavoro retribuita dei periodi di tempo trascorsi dal lavoratore all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento della prestazione lavorativa, a meno che il datore di lavoro non provi che il dipendente sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato ad alcun potere gerarchico. In questo senso, quindi, possono rientrare nell’orario di lavoro tutte le attività preparatorie e preliminari alla prestazione lavorativa (Cass. n. 27799/2017; Cass. n. 12935/2018), come il tempo di log-on e log-off, il tempo tuta, il tempo fra timbratura e raggiungimento postazione di lavoro ecc.
 
Da questa circostanza deriva il particolare focus posto dalla ricorrente proprio sulla supposta assenza di eterodirezione. Questa tesi, tuttavia, non ha trovato accoglimento presso la Suprema Corte che, invece, ha considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all’interno di quest’ultimo immediatamente dopo il turno.
 
La natura eterodiretta ed obbligatoria dell’attività svolta nel segmento temporale in esame è rinvenibile, secondo la logica della Corte, nello stesso modus operandi della società di telecomunicazioni, la quale ha deciso come strutturare la propria sede; dove collocare la postazione di lavoro dei ricorrenti ed il percorso da effettuare. In aggiunta, è stata ancora una volta la datrice ad allocare ai dipendenti le mansioni svolgibili solo tramite una postazione telematica e sua è stata la scelta del tipo di computer più idoneo con la correlata procedura di accensione che inevitabilmente scandisce anche i tempi correlati di avvio. Non da ultimo, è stata la società datrice di lavoro a stabilire l’orario esatto di inizio turno dei ricorrenti e a decidere, tramite regolamento aziendale, che tutti coloro che accedono agli spazi aziendali sono tenuti durante la loro permanenza all’osservanza di un comportamento corretto e rispettoso delle regole.
 
In definitiva, la sentenza presa in esame, muovendo sul solco di una giurisprudenza ormai consolidata, conferma l’orientamento maggioritario che identifica l’orario di lavoro, in accordo con l’art. 1, co. 2, lett. a, D. Lgs. n. 66/2003, con «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni», ribadendo che, tra i segmenti temporali da retribuire, rientrano anche «le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro che siano necessarie e obbligatorie».

 
La Cassazione, in definitiva, con la pronuncia in esame non solo ha riproposto un principio trasversale a molte attività preparatorie (es. tempo di vestimento e svestimento o tempo fra timbratura del badge e arrivo sul posto di lavoro), ma ha anche ribadito l’importanza, per comprendere se un’attività possa essere o meno considerata all’interno dell’orario di lavoro, della valutazione della libertà e dell’autonomia del lavoratore. La condicio sine qua non per ritenere un segmento temporale come lavorativo, dunque, è che sia il datore di lavoro a scandire modi e tempi della prestazione e non il lavoratore.
 
Virginia Pezzoni
ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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