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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16
1. Per declinare al meglio il tema occorre tentare di operare una periodizzazione perché non da oggi sono aumentate le forme di collaborazione nell’impresa. Come è stato giustamente detto, se, nel quadro organizzativo-fordista, il binomio subordinazione-impresa sembrava necessario e totalizzante, oggi quel binomio si è allentato e può essere sostituito da altri contratti e combinazioni più sofisticate.
Nel 2003, quindi solo vent’anni fa, non un’era geologica, quando sono stata chiamata dall’AIDLaSS ad occuparmi di organizzazione del lavoro e rapporti di lavoro[1] eravamo già entrati nel post-fordismo. La globalizzazione e l’innovazione tecnologica avevano spinto un crescente numero di imprese a ristrutturarsi: da una parte, le imprese tendevano a concentrarsi sul core business e a comprare tutto il resto; d’altra parte, le nuove tecnologie cambiavano i modi di lavorare per cui si riduceva la manualità richiesta in tantissimi lavori e il numero dei lavori in cui era richiesta la manualità. Ricordiamo l’enfasi già posta allora sui “lavoratori della conoscenza”.
Visti questi mutamenti nell’ottica dei rapporti di lavoro, si poteva già rilevare, nei lavoratori della conoscenza, la presenza non solo di livelli molto elevati di professionalità ma anche di autodirezione e di responsabilità del risultato del lavoro: con forte riduzione, dunque, della distanza dal lavoro autonomo.
D’altra parte, il confidare delle imprese, per procurarsi le competenze di cui avevano bisogno, sul mercato del lavoro esterno (attraverso, ad es., lavoratori temporanei) incideva sulle condizioni non solo dei lavoratori, ma anche delle imprese, per la difficoltà della retention in un mercato del lavoro aperto. E anche, se vogliamo, sul sistema economico complessivo, diminuendo la propensione delle imprese ad investire in formazione.
Ci muovevamo in quel momento nel quadro di una riflessione più o meno attenta al nuovo, ma tradizionale. Come ho detto in quella relazione, il dato legale e, a cascata, la stessa elaborazione teorica sul contratto di lavoro erano in grado di metabolizzare i nuovi dati di contesto sul versante dell’evoluzione dei modi di lavorare.
2. Poi è stata la volta del lavoro agile, qualificato dal legislatore, nel 2017, come rapporto di lavoro subordinato: la figura del lavoro agile è stata, per così dire, vivisezionata sotto diversi profili particolari, ma senza affrontare centralmente il tema del rilievo da attribuire ad orario e risultato (e alla stessa attenuazione del potere direttivo) ai fini della qualificazione di un rapporto come autonomo o subordinato. Invero, un motivo per cui quel tema non si è affrontato c’è; e consiste nel fatto che, delle due varianti previste dal legislatore, ad essere assolutamente prevalente nella prassi è stata quella del lavoro agile a tempo piuttosto che quella per obiettivi[2]: una variante che, se si affermasse, evidenzierebbe probabilmente la porosità non solo della distinzione tra tempo di lavoro e di non lavoro, ma anche della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
3. Nulla di tutto ciò è però paragonabile all’irruzione dell’intelligenza artificiale nel diritto del lavoro e nei rapporti di lavoro.
Vi è un’imponente letteratura economica, sociologica e, in parte, giuridica sull’uso degli algoritmi nel rapporto di lavoro. Nel nostro sistema, i problemi originati da quest’uso sono già emersi in sede giudiziaria essenzialmente nel caso del lavoro prestato tramite piattaforma digitale e, in particolare, dei riders impiegati nella consegna di beni, specialmente cibo, a domicilio.
Invero, sistemi decisionali a base algoritmica sono diffusi anche nei settori produttivi tradizionali come la logistica,[3] il commercio, la manifattura. E, d’altra parte, il lavoro tramite piattaforma non si riduce a quello dei ciclofattorini: basti pensare all’attività dei creatori di contenuti digitali (che creano contenuti da pubblicare sul web: i cd. influencer, tiktoker) sicuramente collocabili nell’alveo del lavoro autonomo, se non imprenditoriale.
Nella nostra pratica giudiziaria tuttavia è emersa essenzialmente, come si è detto, la questione dei riders. In proposito vi è un capitolo che conosciamo tutti, relativo alla qualificazione del loro rapporto di lavoro come subordinato, eterorganizzato, autonomo o coordinato; un altro, che conosciamo di meno, relativo alla questione se l’algoritmo, che di per sé è solo una sequenza logico-matematica, possa produrre decisioni discriminatorie sia dirette sia, soprattutto, indirette. Vi sono pronunce che mettono in discussione il sistema di accesso ai turni che privilegia l’indice di affidabilità (cd. ranking reputazionale) in relazione a criteri come l’assiduità al lavoro, o al lavoro prestato in un periodo di alta domanda, perché questi criteri, apparentemente neutri, finirebbero per alimentare discriminazioni di natura religiosa, sindacale, ma anche di genere, handicap, età, etc.[4]
Della gestione algoritmica dei rapporti di lavoro si è occupato anche il legislatore con il cd. decreto trasparenza (l. gls. n. 152/1997, così come recentemente modificato) che, all’art. 1bis, fa obbligo al datore di lavoro ovvero al committente di informare i lavoratori e le loro rappresentanze sull’utilizzazione di sistemi decisionali o di monitoraggio, integralmente automatizzati, deputati a fornire “indicazioni rilevanti prima dell’assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di compiti o mansioni nonché indicazioni incidenti sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori”.
Una norma di difficile applicazione, che anticipa i contenuti del regolamento europeo sull’intelligenza artificiale e quelli probabili della direttiva sul lavoro tramite piattaforma, e che ha già alimentato un contenzioso giudiziario sempre nel settore delle piattaforme del food delivery via app[5] .
Leggendo sia il provvedimento normativo, sia quelli giudiziari ci si rende conto di quanto sia problematica questa disciplina, sull’obbligo di trasparenza, che sembra chiedere assai di più al datore di lavoro (ma anche al committente), che si avvale di sistemi automatizzati, di quanto debba normalmente “svelare” il datore di lavoro sul modo di esercizio del proprio potere direttivo o di controllo sui lavoratori (e che appartiene in larga misura al suo foro interno). Ciò apre scenari inediti, appunto, sulle modalità di esercizio dei poteri direttivo/di controllo – poteri fondamentali nella struttura del rapporto di lavoro – che viene, in qualche modo, oggettivizzato.
4. A governare questo ampio novero di forme di collaborazioni nell’impresa (cui è da aggiungere, specie nel settore dei servizi – pensiamo alla sanità o ai servizi alla persona – l’utilizzazione combinata di contratti di lavoro autonomo libero-professionale per le figure apicali e di pratiche di outsourcing per i segmenti meno qualificati) vi sono essenzialmente tre norme: l’art. 2094 c.c., l’art. 2222 c.c. e l’art 2, 1° co., del d. lgs. n. 81/2015. Quest’ultima norma, su cui continuiamo ossessivamente a mettere l’accento, ha oggettivamente operato come “scivolo”[6] verso la subordinazione, non solo nel senso di rendere applicabile la relativa disciplina “al di fuori” della subordinazione, ma, nei fatti, di allargarne la stessa nozione. Nella mia esperienza, a parte che nel settore dei riders, sebbene nelle controversie giudiziali sulla qualificazione di un rapporto come subordinato o autonomo venga talora evocato l’art. 2, 1° co., d. lgs. n. 81/2015, poi si finisce per decidere la fattispecie esclusivamente sulla base dell’art 2094 c.c.
Ma, accanto all’enigmatico 1° comma dell’art. 2, vi è anche il comma 2°, meno valorizzato, ed anzi per un certo periodo ostracizzato dalla dottrina (a causa del malinteso principio dell’indisponibilità del tipo) che si sta dimostrando adatto a stemperare le difficoltà qualificatorie e regolatorie che presentano le “nuove forme di collaborazione nell’impresa”.
E questo perché il legislatore consente ai contratti collettivi di graduare fattispecie e tutele: basti pensare al recente accordo nazionale per la regolamentazione dell’attività degli shopper[7], vale a dire di coloro che collaborano con le imprese che svolgono, attraverso l’ausilio di piattaforme digitali, attività di acquisto di prodotti di largo consumo ordinati online dal cliente.
L’accordo è molto interessante perché, stipulato espressamente in attuazione dell’art. 2, 2° co., d. lgs. n. 81/2015, definisce l’attività svolta dagli shopper come attività di natura autonoma, ma vi costruisce intorno un reticolo di tutele: dal compenso, alle tutele in caso di malattia, al recesso, alle informazioni da dare a seguito del decreto trasparenza etc. (quindi, l’intero trattamento economico e normativo, come previsto dalla norma).
Ma prima ci aveva provato Assodelivery con il CCNL rider stipulato con il sindacato dei riders della UGL. E vi sono esperienze contrattuali, che hanno passato positivamente il vaglio del sindacato giudiziario[8], nel settore dei call center outbound, della scuola non statale, degli enti di ricerca privati, delle università non statali e radiotelevisioni private[9].
Come ho già altrove argomentato[10], allo stato, solo attraverso questa fonte, in mancanza del dictum del legislatore, si può arrivare a quella articolazione delle tutele del lavoro personale, in relazione alle esigenze di protezione, di cui si vagheggia da tempo, senza esiti concreti, anche per la difficoltà di costruire le fattispecie di imputazione delle tutele.
5. Qualche indicazione od impulso ci viene dal diritto europeo?
Da una parte, è appena intervenuta l’approvazione del regolamento europeo sull’IA. Come sappiamo, vi è, nell’impostazione del regolamento, una distinzione tra sistemi a basso e alto rischio – per la salute e la sicurezza e per i diritti fondamentali delle persone fisiche – e i sistemi di intelligenza artificiale utilizzabili in ambito lavorativo sono classificati ad alto rischio. Di qui una serie di regole specifiche: trasparenza, sorveglianza umana, informazione individuale e collettiva prima di mettere in opera o utilizzare un sistema di IA. Anzi, vi è un obbligo di informazione al fine di raggiungere un accordo sull’introduzione e sull’uso di tali sistemi.
Sono le stesse regole che troviamo nell’attuale testo della proposta di direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali[11], almeno nella parte relativa alla gestione algoritmica dei rapporti di lavoro.
La parte più controversa di questa proposta di direttiva riguarda, tuttavia, la presunzione di subordinazione – vincibile dalla prova contraria – con la positivizzazione di indici molto variegati che, almeno nel nostro ordinamento, non necessariamente sono sintomi di subordinazione (basti pensare al riferimento all’aspetto esteriore e alla limitazione della possibilità di svolgere lavori per terzi).
Ora pare che, venuti meno gli indici, rimanga comunque l’obbligo per gli Stati nazionali di ricorrere alla presunzione legale di subordinazione, vincibile dalla prova contraria, “quando si riscontrano fatti che indicano un potere di controllo o direzione, conformemente al diritto nazionale, ai contratti collettivi o alle prassi in vigore negli stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della corte di giustizia”[12].
Mi sembra che, ammesso che questo testo compromissorio, per ora provvisorio, vada in porto, la presunzione sia molto edulcorata perché non vengono più individuati criteri presuntivi, demandati evidentemente agli ordinamenti nazionali, che dovranno individuare i fatti indicativi di un potere di controllo o direzione.
Ma la previsione resta sempre problematica: non si comprende in che cosa possa consistere la prova contraria (una volta che sussistano i fatti che indicano direzione e controllo).
Proprio per la sua provvisorietà, se non precarietà, è prematuro affannarsi a prefigurare come simile testo possa inverarsi nel nostro ordinamento. E quale impatto possa avere sulle nostre categorie. Del resto, ammesso che l’iter di approvazione si concluda positivamente, non è neppure da escludere l’utilizzazione di tecniche o definizioni ad hoc per i lavoratori tramite piattaforma, che di per sé non incidano sulle nostre definizioni generali, a cominciare dall’art. 2094 c.c.
Mariella Magnani
Professoressa emerita di Diritto del lavoro dell’Università di Pavia
*Intervento dell’autrice al seminario, dall’omonimo titolo, svoltosi a Milano il 15 marzo 2024, presso l’Università Luigi Bocconi.
[1] Cfr. M. MAGNANI, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in DLRI, 2004, p.65 ss.
[2] Cfr. M. BROLLO, M. DEL CONTE, M. MARTONE, C. SPINELLI, M. TIRABOSCHI (a cura di), Lavoro agile e smart working nella società post-pandemica, Adapt University Press, 2022, S. ROCCISANO, Il trattamento economico e normativo del lavoratore agile, in LLI, vol. 9, No. 2, 2023.
[3] Generando problemi del tutto peculiari: cfr., ad es., Trib. Padova, 3 marzo 2023
[4] Cfr. Trib. Bologna, 31 dicembre 2020; Trib. Palermo, 17 novembre 2023.
[5] Cfr. Trib. Palermo, 31 marzo 2023; Trib. Palermo, 20 giugno 2023; Trib. Torino, 5 agosto 2023 che hanno dichiarato l’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro per non aver fornito le informazioni previste dal decreto trasparenza.
[6] Cfr. R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Milano, 2015, p. 371.
[7] Accordo stipulato il 19 febbraio 2024 da Assogrocery e NIDIL-CGIL, FELSA-CISL, e UILTEMP-UIL
[8] Cfr,, ad es., Trib. Roma, 6 maggio, 2019
[9] Cfr. M. MAGNANI, Autonomia, subordinazione, coordinazione, in AA.VV., I contratti di lavoro, Torino, 2016, p. 1 ss.
[10] Cfr. M. MAGNANI, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, in DRI, 2020, p. 105 ss.
[11] Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, 9 dicembre 2021, COM (2021) 762 final.
[12] Così l’art. 5 del testo scaturente dall’accordo provvisorio tra Consiglio e Parlamento europeo.