Il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sostiene che le attività di ricerca e innovazione siano la leva per recuperare la produttività che in Italia è in crescita debole e negativa da vent’anni. Può commentare questa affermazione?
Dunque, proviamo a fare un passo indietro. L’aumento della produttività (e della profittabilità) per un’impresa, passa dalla sua capacità di essere competitiva sui mercati di riferimento. La competitività si basa fondamentalmente su tre fattori: l’innovazione, la comunicazione/marketing e la gestione. Per poter dire quanto l’innovazione (intesa come capacità innanzitutto di ricerca e quindi di sviluppo) pesi verso gli altri fattori, occorrerebbero dati provenienti da ricerche, analisi e studi. La mia impressione, basata però su esperienza e sensibilità, mi porta a credere che ricerca e sviluppo pesino per almeno il 50% rispetto ad altri fattori, sul rilancio della produttività e della crescita di un impresa. In definitiva quindi direi che l’investimento in ricerca e sviluppo costituisca uno dei driver principali (probabilmente il più solido, ma non il solo) per rinvigorire la crescita del nostro Paese.
L’Italia continua a registrare un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei in termini di investimenti nei settori della ricerca e dell’innovazione. Questo ritardo è attribuibile alla poca attività di ricerca realizzata nel settore privato? Crede che quest’ultimo investa insufficienti risorse nella ricerca?
Non credo che il comparto privato investa poche risorse nell’attività di ricerca. Credo invece che l’attività di ricerca svolta nel privato non venga identificata come tale e quindi non venga tracciata nelle statistiche ufficiali. Se continuiamo a ritenere “ricerca” solo quella effettuata nei laboratori universitari e dei centri di ricerca pubblici, rischiamo di dipingere un quadro poco realistico. È molto probabile che il privato possa investire ancor più nella ricerca, se questa fosse riconosciuta come tale e potesse godere di trattamenti “di riguardo” (per esempio in termini contributivi) rispetto ad altre attività aziendali. Il rischio è che, essendo in Italia, tutti i lavoratori di un’impresa diventino magicamente ricercatori, dopo l’emanazione di una legge che favorisse la ricerca nel privato.
Stando ai dati Eurostat, l’Italia è uno dei paesi sviluppati con il minor numero di ricercatori. Come evidenzia l’OCSE, ciò dipenderebbe essenzialmente dalla quota molto bassa di ricercatori che lavorano nelle imprese e nel settore privato. Qual è il problema sotteso alla persistente incapacità di creare una massa critica di ricercatori nelle imprese?
La bassa quota di ricercatori che lavorano nel privato in Italia è probabilmente dovuta a diversi fattori, uno dei quali credo possa essere identificato con la dimensione media delle imprese italiane. La dimensione “nana” della maggior parte delle nostre imprese e la loro scarsa propensione a “fare sistema”, se da una parte rende il nostro tessuto produttivo flessibile e capace di adattarsi ai cambiamenti in tempi ragionevoli, dall’altra costituisce un ostacolo allo sviluppo di un sistema capace di supportare l’innovazione con un approccio sistematico di impiego della ricerca. Certamente occorrerebbe lavorare su più piani, ovvero il rafforzamento di soggetti aggregatori in grado di mettere in rete le imprese innovative (più portate naturalmente alla ricerca), l’apertura di un mercato che agevoli il passaggio dei ricercatori tra pubblico e privato, un’iniezione di incentivi verso le aziende, ma anche verso i soggetti aggregatori. Poi, relativamente agli incentivi, forse sarebbe opportuno legarli ai risultati ottenuti e rimodularli di anno in anno in base ai risultati.
Oggi le piccole imprese che vogliono fare attività di ricerca e sviluppo come fanno? Devono per forza affidarsi all’Università o ai centri di ricerca oppure esternalizzeranno la ricerca, come ipotizza qualcuno, attraverso le start-up?
Le piccole imprese possono secondo me lavorare su diversi piani: possono innanzitutto comprendere la possibilità (e la semplicità) di accedere ai contratti di ricerca con le università; potrebbero altrimenti avvicinarsi al mondo delle start-up, magari anche con i concetti di spin-off di rami d’azienda; un’altra possibile soluzione è trovare forme di aggregazione innovative come per esempio la “rete d’impresa”, all’interno delle quali promuovere la ricerca, della quale fruire in modo congiunto.
In Italia non è stata ancora compresa e valorizzata adeguatamente la dimensione iniziale dei percorsi di ricerca in azienda, come l’apprendistato di alta formazione e ricerca e i dottorati industriali. Lei conosce questi istituti e con essi le agevolazioni fiscali? Li utilizza?
Conosco l’apprendistato di terzo livello solo per averne letto al momento della sua istituzione, ma non l’ho mai approfondito.
La vostra struttura ha mappato le competenze presenti al suo interno? Sono state fatte previsioni dei fabbisogni professionali dei prossimi anni?
A ComoNext abbiamo da poco avviato un progetto di mappatura delle competenze, attraverso due survey on-line e un programma di interviste a ciascuna delle imprese presenti nel Parco e di ciascuno dei dipendenti qualificati. Non so se anche le associazioni di categoria sul territorio (Unindustria e Confartigianato) abbiano avviato una survey sui loro futuri fabbisogni professionali.
Sono state attivate collaborazioni con scuole e Università per costruire i profili professionali di cui avrete bisogno? Viene fatto un uso strategico dei fondi interprofessionali per aggiornare le competenze delle risorse già presenti all’interno?
Fino ad oggi non sono ancora state attivate collaborazioni con scuole e Università, ma ci sono in corso ipotesi in questa direzione (alle quali stiamo guardando con interesse). Conosciamo bene i fondi interprofessionali: in particolare stiamo organizzando un incontro al Parco con Fonservizi dedicato alla presentazione del Fondo alle imprese ospiti (incubate e insediate) e alla creazione di un progetto pilota ad hoc.
Il piano Industria 4.0 parla di competence center e digital innovation hub senza tuttavia fare riferimento a poli tecnologici, parchi scientifici e centri di ricerca. Quale ruolo avranno questi nella quarta rivoluzione industriale? Saranno coinvolti? Superati? Messi a margine? Rilanciati?
Il documento presentato dal Ministro Calenda indica due tipologie di soggetti: la prima comprende i cosiddetti Digital Innovation Hub, con un ruolo di sensibilizzazione e di formazione delle imprese verso i temi dell’Industria 4.0. La seconda comprende i Competence Center, con un ruolo di implementazione delle pratiche proprie dell’Industria 4.0 nelle aziende che intendono innovarsi. In effetti, nella prima stesura del documento non risulta ancora chiaro chi sia, tra i soggetti esistenti, preposto a ricoprire questi due ruoli e certamente la discussione in merito è ancora aperta.
Personalmente penso che in ciascuna delle nostre regioni vi siano diversi soggetti in grado di interpretare al meglio le vesti di Innovation Hub e Competence Center sui temi dell’Industria 4.0, e tra questi di sicuro vi siano i Parchi Scientifici Tecnologici, anche se occorre sottolineare che all’interno della categoria vi sono forti differenze, sia per modello organizzativo che per propensione ai servizi alle imprese.
Un ruolo fondamentale nella definizione di chi sarà considerato Digital Innovation Hub e Competence Center lo stanno giocando proprio in queste settimane, insieme al Ministero, le varie Confindustria regionali e i sistemi universitari regionali. So che in alcune Regioni si stanno ipotizzando modelli di “Innovation Hub diffuso”.
La mia impressione è che i Parchi Scientifici possano costituire una risorsa preziosa a supporto del piano Industria 4.0; alcuni di essi, come ad esempio ComoNExT, sono già pronti, altri probabilmente devono lavorare ancora un po’ sul proprio modello di sviluppo, ma il loro ruolo di attrattori di innovazione li rende i soggetti ideali su cui costruire il Piano.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo