È ormai opinione condivisa che la salute sia un aspetto fondamentale della qualità della vita delle persone, ma anche un bene essenziale per lo sviluppo sociale ed economico delle nazioni.
Di fatto, l’evidenza storica ci dimostra che salute e sviluppo economico di una nazione sono molto interrelati. Tuttavia, c’è spesso confusione su quale sia tra le due la causa che generi l’altra.
Due rapporti hanno recentemente affrontato questo argomento, trattando anche questa indeterminatezza: Le dimensioni della salute in Italia redatto dall’Istat, che esamina gli aspetti che incidono sulle condizioni di salute della popolazione italiana, e Investing in a workforce fit for the future della The Work Foundation, che analizza la situazione britannica relativa allo stato di salute della forza lavoro.
Prima di entrare nel merito dei due studi, si consideri un principio che segna il presupposto delle due analisi: la salute percepita.
Essa è uno dei principali indicatori di salute soggettiva, riconosciuto a livello internazionale per la sua capacità di riassumere le condizioni legate alla sopravvivenza e alla domanda di prestazioni sanitarie.
La valutazione soggettiva dello stato di salute ha un significato molto importante, implicando un parere sul proprio benessere psichico, oltre che fisico, che non è influenzato soltanto dalla presenza/assenza di malattie o sintomi: il benessere di una persona è anche condizionato dall’ambiente sociale, dalla capacità di intessere soddisfacenti relazioni sociali e di ottenere le risposte ai propri bisogni. Questo aspetto interessa non solo l’ambiente familiare e sociale, ma anche quello lavorativo (Per un approfondimento in materia a livello europeo si consulti F. Romano, F. Silvaggi, Qualità di vita in Europa: perché è fondamentale investire nella salute?, in Boll. ADAPT, n. 22/2015).
Analizzando i dati italiani risalenti al 2013, quasi una persona su due (46,9%) ha indicato di essere affetta da almeno una patologia cronica in una lista di 22 patologie. In particolare, il 14,7% della popolazione ha dichiarato di essere affetto da almeno una malattia cronica grave e il 14,4% riferisce di avere almeno tre patologie croniche. Le donne presentano, per tutte le classi di età, tassi di multi-cronicità significativamente più alti (18,7% delle donne contro il 9,8% degli uomini). Anche nel Regno Unito si registrano dati altrettanto sconcertanti: una persona su tre dichiara di avere una malattia a lungo termine e il 42% di esse dichiara che tale situazione è dovuta al lavoro.
In Italia, inoltre, le spese dovute a queste malattie hanno subito una riduzione dal 3,6% nel 2012 al 3,7% nel 2013. In particolare, si rileva una diminuzione nelle spese per medicinali, visite specialistiche e dentistiche, segnale di un possibile rischio di abbandono di comportamenti di prevenzione e interventi tempestivi nel campo della salute.
Una prima spiegazione associata a questi dati può essere messa in relazione alla presenza o assenza di un lavoro. Questo perché il perdurare della crisi e gli alti tassi di disoccupazione si sono riflessi sulle condizioni economiche delle famiglie, determinando un’ingente perdita del potere d’acquisto e un calo rilevante della spesa per i consumi, soprattutto inerenti alla salute.
Questa situazione contribuisce a rendere lo stato di cattiva salute più duraturo nel tempo.
Nel Regno Unito la spesa per assenze causate da malattie è di 100 miliardi di sterline. Si stima inoltre che, fino al 2030, la prevalenza di malattie a lungo termine aumenterà del 40%.
Fra queste, le più comuni sono le malattie mentali e i disturbi muscolo-scheletrici, con una proiezione di 1 persona ogni 6 affetta da entrambi i disturbi.
Per quel che concerne le malattie mentali in Italia, si registrano 700mila persone colpite da invalidità, pari all’1,1 % della popolazione, con un andamento crescente in base all’età.
Particolarmente per le sindromi depressive, i dati ci illustrano uno scenario abbastanza avverso: le persone colpite sono circa 2,6 milioni (pari al 4,4% della popolazione), con una prevalenza doppia tra le donne rispetto agli uomini. Se a questo tasso di insorgenza si aggiunge la quota di quanti sono potenzialmente a rischio, perché dichiarano di aver avuto episodi depressivi in passato, la prevalenza complessiva aumenta al 7,8%.
Questa constatazione non deve tuttavia trarre in inganno e indurre ad anticipazioni pessimistiche sul futuro lavoristico dei malati cronici. Infatti, fin da oggi, è possibile attuare un’efficace diagnosi, cura e prevenzione di questa preoccupante situazione.
In questa prospettiva, il Report inglese rende evidente una delle sfide imminenti i sistemi di welfare: fornire un adeguato supporto ai lavoratori con condizioni di salute cronica al fine di permettere la loro permanenza nel mercato del lavoro anche in età avanzata.
A tal riguardo, utili spunti offerti dal report inglese sono quelli inerenti le logiche incentivanti di natura fiscale nei confronti dei datori di lavoro, nonché la creazione di ambienti di lavoro aperti a programmi di pensionamento graduale e il coinvolgimento sinergico delle imprese locali e del sistema sanitario con l’intento di implementare interventi ad hoc rivolti alla forza lavoro in stato di bisogno.
Queste raccomandazioni possono essere ampliate attraverso logiche inclusive di sustainable work. In particolare, ai fini del presente contributo, le iniziative concernenti il work-life balance e il wellness at work risultano adatte a migliorare l’inclusione lavorative dei lavoratori con condizione di salute a lungo termine anche in età avanzata.
Nel merito, le iniziative di work-life balance sono molto efficaci nel prefiggersi l’obiettivo di una crescente partecipazione alla vita lavorativa fino ad un’età più avanzata, ripensando, in chiave più moderna, alle modalità di conciliazione tra lavoro e vita privata, secondo una prospettiva che tenga conto delle esigenze dei lavoratori. In relazione, invece, al wellness at work, risultano di grande validità le politiche aziendali che prevedano l’adattamento del posto di lavoro alle esigenze specifiche dei lavoratori con problemi di salute attraverso, ad esempio, orari lavorativi flessibili o al telelavoro.
Elemento imprescindibile per la riuscita di tali iniziative è rappresentato dalla qualità del lavoro. Tale caratteristica dipende dalle condizioni lavorative alle quali i lavoratori sono sottoposti e dalle regole secondo le quali il lavoro stesso è organizzato. Esse, nella maggior parte dei casi, sono precarie a causa della mancanza di adattabilità delle imprese allo stato di salute del lavoratore, caratteristica che invece favorirebbe l’integrazione tra le necessità del lavoratore malato e le esigenze aziendali.
Invero, nel contesto italiano, le relazioni industriali potrebbero avere un ruolo determinante nel riuscire a fornire adeguata tutela alle singole fattispecie attraverso disposizioni che siano compresi in un modello organico e che abbiano quale obiettivo la promozione della salute tanto per i lavoratori con condizioni di salute a lungo termine quanto per quelli in età avanzata.
In conclusione, possiamo affermare quanto sia essenziale un cambiamento culturale che porti il sistema di welfare di ogni nazione ad essere complementare e congiunto ai programmi di wellness at work. Per ottenere questo cambiamento, le risorse devono indirizzarsi verso obiettivi che possono offrire le maggiori probabilità di successo, in cui l’impegno alla salute diviene contemporaneamente responsabilità collettiva e individuale.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@FabiolaSilvaggi