Ci sono immagini, negli occhi di un giovane che si affaccia al mondo degli adulti e del lavoro, così piene di distonia e incoerenza da lasciare senza parole.
Si vedono barconi, colmi di persone, giovani sogni, speranze e vite che partono dai Paesi poveri alla volta di una Italia e di una Europa che promette felicità.
E contemporaneamente si sentono racconti, si leggono dati di una sempre maggiore tendenza migratoria dei giovani italiani verso Paesi con maggiori opportunità di occupazione. Cifre, percentuali, approssimazioni di persone categorizzate secondo età, provenienza e luogo di emigrazione. Dati confusi, 30,1% in più dell’anno scorso, 70,5% dal 2012, e della popolazione totale il 48,2 % è under 40.
Questi due flussi, migratorio e immigratorio, queste immagini e queste anche tragiche vicende hanno in comune due parole: speranza e futuro. Non sono termini scontati, e più che mai per un giovane di 20 anni che cerca di costruire le fondamenta del proprio futuro, in una aula universitaria.
Speranza e futuro sono sinonimi di opportunità. Chi parte da un luogo, che rappresenta la sua casa, la sua storia e la sua famiglia verso una meta nuova è consapevole di quanta estraneità vi sia in una città che non si conosce. Ma cerca in essa una opportunità per realizzare il proprio percorso e trovare esito compiuto a scelte professionali e di vita altrimenti non realizzabili. In alcuni casi partire e lasciare il proprio Paese è anche l’ultima possibilità di vita, in senso stretto.
Speranza e futuro sono però anche sinonimi di responsabilità. Quel sentimento che ciascuno sente verso se stesso quando progetta il proprio cammino, consapevole di avere ricchezza e profondità nel proprio vissuto, nella propria testa e nelle proprie mani e di dover far fruttare quei talenti che possiede per partecipare allo sviluppo del contesto in cui vive.
Responsabilità di chi decide di rimanere o restare. Ma non solo. Responsabilità anche di chi è accanto a noi giovani, degli adulti, educatori, genitori, maestri, datori di lavoro, politici e decisori.
Personalmente ho vissuto da protagonista uno di questi flussi. Sono una ragazza albanese che ha avuto la fortuna che suo padre, una lontana mattina della mia memoria, prendesse l’iniziativa di imbarcare la sua famiglia su una nave, alla volta dell’Italia. Mio padre aveva ancora i libri di scuola sottobraccio. E sono anche una ragazza italiana, perché tale mi sento, che ha avuto la fortuna di studiare. Talvolta, seduta in un banco della mia facoltà accanto ad altri miei colleghi, sento di essere diversa. Ritengo sia una fortuna avere dentro se stessi radicati valori e principi raccattati da due diverse tradizioni, culture e mentalità. Questo mi concede di non dare per scontato quello che posseggo e quello che vivo, cercando di cogliere le opportunità che ci sono in ogni corso, in ogni incontro e in ogni momento di educazione, formale o meno.
Però intorno non ho molti esempi né colleghi animati dallo stesso animo.
Negli anni della scuola ho ricevuto tantissime nozioni, quasi sempre inserite in programmi di studio preconfezionati, a cui non interessava di quali persone, quali storie e quali attitudini fosse composta la classe a cui erano destinati. Ho trovato intorno a me più spesso studenti ed insegnanti svogliati, passivi, rinunciatari.
Qualche volta, più raramente ma in un modo manifesto, ho trovato maestri di vita, insegnanti atipici e speciali. Di quelli potrei riconoscere la voce, ripetere le lezioni più significative e ricordare i passaggi dei loro discorsi più profondi. Mi è bastato questo, qualche incontro essenziale, per capire quale strada avrei voluto intraprendere e quale allieva avrei voluto essere. Ho cercato, sinora, di cogliere le opportunità che la scuola mi ha concesso, di meritare ogni cosa lavoricchiando in ogni dove e cercare in qualche modo di restituire ai miei genitori quella fatica e quella scelta di emigrazione con i miei risultati, la mia intraprendenza e la mia vivacità.
Alcuni pensano a me come allo straniero che ruba il lavoro e la scena, ma preferisco questa etichetta a quella di “giovane immobile”. La tendenza ad attribuire ad altri responsabilità anche personali porta all’immobilismo mentale, questo si traduce in poca innovazione, in tutti gli ambiti, perché così non si impara a carpire e riflettere i cambiamenti della realtà circostante.
Si può partire o restare, almeno in Italia, la scelta è ancora possibile. Qualsiasi sia la decisione che si prenda, a mio parere è bene iniziare da dentro se stessi. E non interessa quanti anni hai, se sei uno studente o un educatore, un genitore o un figlio sia studenti o educatori, genitori o figli. Il viaggio parte quando ci si mette in gioco, quando si abbandonano le radici alla ricerca di un terreno per mettere le proprie.
Fabjola Kodra
Studentessa del 1° anno di Economia e marketing internazionale
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
@FabiolaKodra
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Lezioni di Employability/41 – Partire o restare? Quando si può