Oggi, 30 giugno, non è il giorno dei Santi Crispino e Crispiniano e Cesare Damiano non è certo Enrico V alla battaglia di Azincourt. Ma il presidente della Commissione Lavoro della Camera va a riscuotere oggi, in Aula alla Camera, un altro risultato importante nella sua missione in difesa dello status quo in materia di diritto del lavoro e di politiche del welfare. Se non ci saranno incidenti di percorso – e pare proprio che non se ne presenteranno – nel giro di qualche giorno la Camera, con un voto favorevole più ampio di quello di una maggioranza di per sé drogata per via del premio assegnato dalla legge elettorale, approverà il sesto (sì proprio il sesto) intervento di salvaguardia per gli esodati (quei soggetti che mantengono il diritto di andare in quiescenza con i requisiti previgenti la riforma del 2011).
La storia, anche questa volta, ha seguito il solito copione su cui abbiamo visto recitare, più o meno, tutti i partiti in occasione delle precedenti operazioni di salvaguardia (chi volesse ricostruire la vicenda può trovare un’accurata narrazione attivando il link: http://www.camera.it/leg17/522?tema=653&La+questione+degli+esodati). Di solito si parte con un testo di legge multipartisan già predisposto nella passata legislatura. E ad ogni passaggio topico (la quinta salvaguardia era inclusa nella legge di stabilità per il 2014) l’implacabile Commissione Lavoro della Camera compie un passo avanti nello smantellamento – con il pretesto degli esodati – della riforma Fornero, in attesa che maturino le condizioni (finanziarie prima ancora che politiche – queste ci sarebbero già – per giungere ad una “soluzione finale” di quella “legge maledetta”).
Il testo, nella sua completezza, viene stroncato, in sede di relazione tecnica, dalla Ragioneria dello Stato e dall’Inps. Così, Damiano, contento di averci provato e di aver dimostrato che il “cattivo” non è lui, ritira la mano che ha lanciato il sasso e si accontenta di quanto si riesce a conseguire.
Questa volta, in Commissione, l’avevano combinata grossa (il Pd dispone di 21 componenti su 46), mettendo insieme un piano in cui gli esodati c’entravano come i cavoli a merenda. Tanto per fare degli esempi che non risolvono l’intera casistica: veniva proposta l’abrogazione dell’adeguamento automatico alla speranza di vita nei confronti delle lavoratrici che accedono al regime sperimentale previsto fino a tutto il 2015; veniva introdotta una deroga dall’applicazione dei nuovi requisiti di accesso e decorrenza al pensionamento previsti dalla riforma Fornero del 2011 in presenza del requisito di 15 anni di contribuzione al 31 dicembre 1992 ovvero per coloro che anteriormente a tale data erano stati ammessi alla prosecuzione volontaria; era proposta l’eliminazione della modesta penalizzazione economica prevista per chi ricorre al trattamento anticipato prima dei 62 anni di età; era riconosciuta piena validità agli accordi di esubero, stipulati entro la fine del 2011, anche in sede non governativa ed anche con l’utilizzo degli ammortizzatori in deroga (di cui – è noto – è quasi impossibile la certificazione).
Ma la norma più discutibile riguardava l’introduzione di una nuova categoria di salvaguardati: i lavoratori con contratto a tempo determinato cessati dal lavoro tra il 2007 e il 2011 non rioccupati a tempo indeterminato che raggiungevano le decorrenze previgenti la legge n.241/2011 entro 36 mesi dalla sua entrata in vigore. Il costo cumulato (2014-2025) del progetto era stato valutato nell’ordine di 47 miliardi (partendo da 2,8 miliardi nell’anno in corso che salirebbero al picco di 8,8 miliardi nel 2018). Troppo da sostenere, anche per l’ultimo caposaldo della “linea di classe” del Pd. Così, si è dovuto “fare di necessità virtù” e accontentarsi. Come nelle volte precedenti. Ma stavolta è andata di lusso.
Si è scoperto (a prova del fatto che gli esodati erano meno di quelli che venivano contrabbandati quando il caso era di moda) che nella seconda e nella quinta operazione di salvaguardia si era esagerato nella stima dei possibili utilizzatori e quindi anche nelle coperture di spesa; e che c’erano quindi dei risparmi disponibili. Nella sesta salvaguardia, allora, entreranno a far parte 32 mila lavoratori, ma, a fronte delle contestuali riduzioni operate sugli interventi precedenti il numero netto dei tutelati aumenterà di 8 mila circa, raggiungendo quello complessivo di 170 mila.
La nuova misura di tutela è molto semplice: si limita ad ampliare da 36 a 48 mesi (e quindi al 6 gennaio 2016) dall’entrata in vigore della legge Fornero, il periodo di maturazione dei previgenti requisiti pensionistici. Tale condizione permetterà agli interessati di andare in quiescenza con i vecchi e non con i nuovi requisiti.
Cerchiamo di spiegare bene questo passaggio, che, a nostro avviso, è scandaloso. Chi ha risolto il rapporto di lavoro prima dell’entrata in vigore della riforma potrà andare in pensione con i previgenti requisiti purché li maturi entro un quadriennio. Che dire? Abbozziamo.
Invece, non riusciamo proprio a giustificare che sia salita a bordo della Zattera della Medusa del sistema pensionistico italiano, una “categoria” di tutelati completamente nuova: i c.d. cessati da un contratto a termine tra il 2007 e il 2011. Nel numero massimo di 4 mila, è sufficiente che costoro non si siano rioccupati a tempo indeterminato per rientrare nel sistema di salvaguardie fino a 48 mesi (a questo punto è scattato un anno in più anche per loro rispetto a quanto prevedeva il testo varato dalla Commissione). Questi soggetti potrebbero non aver perso neppure un giorno di lavoro, contraendo rapporti a termini uno dopo l’altro o contratti di collaborazione anche interessanti sul piano economico. Ma tutto ciò non conta: se non si lavora a tempo indeterminato si è comunque “figli di un dio minore”, che deve intervenire a risarcirti al momento della pensione. Tanto è Pantalone che paga.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus