Per i ricercatori porte chiuse in Italia

Non sono soltanto lavoratori precari. Senza tutele, accusano, e senza dignità. Sono i ricercatori delle università italiane; cervelli in fuga da un Paese incapace di garantire loro un futuro. Professionisti che migrano all’estero e che nella maggior parte dei casi non fanno più ritorno. E nonostante il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, abbia licenziato, solo pochi giorni fa, il bando per giovani ricercatori intitolato Rita Levi Montalcini, cercando di combattere la fuga dei cervelli all’estero grazie a 24 contratti negli atenei italiani e un finanziamento di 5 milioni euro, la manovra è una goccia nel mare se rapportata ai tagli previsti dalla legge di Stabilità. Il fondo di ricerca applicata perderà, quest’anno, 140 milioni di euro e gli enti di ricerca altri 40 milioni.

 

A voler sintetizzare la condizione dei ricercatori nazionali, si potrebbe parlare di una vera svalutazione culturale compiuta dallo Stato italiano. E sono i dati di una recente indagine a firma dalla Flc-Cgil a dimostrarne l’attendibilità. Un percorso di crescita a ritroso che ha portato, negli ultimi dieci anni, a un impoverimento della qualità universitaria. Dal 2004 al 2014, fa di conto il sindacato, su 100 ricercatori precari, gli atenei nazionali sono stati in grado di assumere solo il 6,7%. Più di 93 in sostanza, sono stati coloro che hanno deciso di partire per altri paesi, portando avanti all’estero il proprio lavoro.

 

A rinforzare il rapporto, intitolato Ricercarsi, anche le ultime analisi dell’Associazione italiana dottorandi che, appena pochi mesi fa, tracciava uno scenario inquietante: in tutto il territorio nazionale si contano 0,6 dottorandi ogni 1.000 abitanti, contro i 3,7 della Finlandia, i 3,1 dell’Austria e i 2,6 Germania. Ancora; i ricercatori italiani sono appena 151 mila contro i 520 mila della Germania e i 429 mila del Regno Unito. Solo nel 2014, continua il report della Flc-Cgil, a fronte di 2.324 pensionamenti nelle università, sono stati attivati appena 141 contratti di ricerca di tipo B, quelli cioè che garantiscono una prospettiva di stabilizzazione. A crescere, invece, i contratti a tempo. Nel 2004 gli assegni di ricerca erano circa 6 mila, lo scorso anno sono più che raddoppiati, attestandosi a 14 mila. Il risultato è chiaro: il mondo universitario ha sostituito il personale strutturato con i precari.

 

Riuscire a scalare quella piramide che pone alla base i dottorandi e conquista la vetta con il titolo di professore ordinario, è di fatto impossibile per due ricercatori su tre. Il primo gennaio sono scaduti, inoltre, numerosissimi assegni di ricerca, contratti di lavoro che rispondevano alla riforma Gelmini del 2011. Una riforma che impose il limite a 4 anni per il rinnovo di tali contratti. Per loro è pronta l’espulsione dal mondo accademico, cosi come per quei contratti di ricerca di tipo A (con rinnovo non superiore ai 5 anni) che scadranno nel corso del 2015. Sicché la percentuale delle migrazioni dei cervelli potrebbe aumentare, stando alle previsioni della Flc-Cgil, del 20%, passando dall’attuale 60% all’80%.

 

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Per i ricercatori porte chiuse in Italia
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