Ha suscitato scalpore la recente inchiesta del New York Times sulle condizioni lavorative dei colletti bianchi di Amazon. Mentre il sole coccolava il popolo di vacanzieri agostani, le penne graffianti di Jodi Kantor e David Streitfeld raccontavano la quotidianità di chi non conosce estate in una delle più grandi e competitive aziende al mondo. Controlli assidui sulle performance individuali, orari di lavoro estenuanti e competizione crescente tra colleghi per il conseguimento di obiettivi spesso inafferrabili.
Non si è fatta attendere la reazione di Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato della multinazionale, a cui si sono aggiunte le critiche dei lettori e le accuse di parzialità, espresse direttamente sul New York Times da una sua stessa public editor. Ma sul difficile rapporto tra l’azienda di Seattle e i suoi dipendenti le voci circolavano da tempo. Era il 2013 quando a Bad Hersfeld, in Germania, il sindacato Ver.di lamentava salari non adeguati al settore e inaugurava una stagione di proteste contro il colosso della vendita al dettaglio. Poco più tardi, dalla culla del neoliberismo, John Carr dell’International Association of Machinists and Aerospace Workers lanciava un appello contro le pressioni dei manager di Amazon per frenare la spinta dei magazzinieri del Delaware a organizzarsi. Condotte anti-sindacali venivano contemporaneamente osteggiate dalla CGT (Confédération générale du travail) in Francia e dalla GMB Union a Milton Keynes, nel Regno Unito. Mentre dallo stabilimento di Castel San Giovanni, nel piacentino, nasceva l’idea di una pagina Facebook per svelare lo sfruttamento dei lavoratori dietro la soddisfazione dei clienti Amazon.
È da qualche anno che il gigante delle vendite fa notizia. Non soltanto per la tempestività delle sue consegne e per un fatturato che scala le classifiche mondiali. Ma anche per il trattamento che riserva ai suoi dipendenti. Un atteggiamento imprenditoriale da predone del mercato del lavoro, che gli è valso l’epiteto di “Wild West”. Dalle pagine del New York Times emerge che Jeff Bezos e la direzione di Amazon hanno scelto la via unilaterale alle grandi trasformazioni dell’età contemporanea. Sfruttando i vantaggi del progresso tecnologico per difendersi dalla frenetica competizione internazionale. Acquisendo sofisticati sistemi elettronici per misurare senza interruzioni la produttività dei magazzinieri. E traducendo l’innovazione della Gamification e l’applicazione delle tecniche di gioco agli ambienti professionali in una gara estenuante alle critiche tra colleghi. Oggi più che mai, mentre in Italia proliferano gli attacchi al sindacato, gli occhi puntanti sulle scrivanie dei dipendenti Amazon servono a rispondere a chi si interroga sull’utilità della rappresentanza e della contrattazione collettiva. E a ricordarci perché, nonostante siano in tanti a delegittimarlo, il sindacato deve presenziare il posto di lavoro.
Perché la garanzia dei diritti non è mai scontata. Nemmeno in Occidente. Nemmeno negli uffici e nei depositi di una delle multinazionali più conosciute al mondo. Il sindacato affanna dietro la rapida avanzata del colosso di Seattle, che conquista valori azionari alla stessa velocità con cui cambia i propri impiegati. L’organizzazione di Bezos è fluida ma costante. Un ciclo continuo di neo-assunti, costretti a eccellere per non sentirsi inadeguati, e di dipendenti logorati, vittime di un meccanismo darwiniano, per cui la sopravvivenza è prerogativa di pochi. Amazon è l’emblema di tutte le sfide che le organizzazioni sindacali, figlie della burocratizzazione e della rigidità del ventesimo secolo, si trovano oggi ad affrontare. In un mercato del lavoro mutevole e veloce, caratterizzato da rapporti di impiego contingenti.
Ma anche nell’era della New economy, le relazioni industriali ci insegnano che si può agire diversamente, e che l’impresa può assumersi le proprie responsabilità sociali per conquistare quote di mercato senza rinunciare ai diritti e alle libertà. Come è avvenuto in Electrolux, dove nel 2010 la direzione d’azienda, le federazioni sindacali svedesi e la confederazione internazionale dei lavoratori metalmeccanici hanno sancito, attraverso un Accordo quadro internazionale, un’organizzazione oraria per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, il pieno riconoscimento delle libertà sindacali e la ferma condanna al lavoro minorile. L’esperienza della multinazionale svedese e delle tante altre che dal 1988 a oggi hanno siglato intese collettive internazionali mostra che importanti traguardi possono ancora essere raggiunti, con il sindacato e con la contrattazione. Misure di supporto all’integrazione delle persone disabili, campagne di sensibilizzazione per il risparmio energetico tra le mura aziendali, predisposizione di meccanismi alternativi e innovativi per la risoluzione delle controversie, interventi di formazione specifica per manager e rappresentanti dei lavoratori. La riconquista della democrazia e del benessere negli stabilimenti Amazon può allora passare per il terreno internazionale delle relazioni industriali. La soluzione alla deriva estremista della logica capitalista può provenire da un Accordo quadro internazionale, il coronamento della contrattazione oltre i confini degli Stati. Perché le ragioni che animano le proteste a Bielanach Wroclawski, in Polonia, sono le stesse che infervorano gli scioperi a Sevrey, nella Francia orientale. E per essere difese richiedono un’organizzazione sindacale transfrontaliera, una crociata comune a Europa e Stati Uniti.
Così, nel 2015, un’inchiesta di fine estate mostra al mondo la verità del lavoro senza rappresentanza. Mentre ricorda al sindacato che c’è una possibilità per cambiare direzione. Ricominciando dal basso. Dalla conquista della fiducia sul posto di lavoro. Dal coordinamento internazionale delle forme di lotta locali. Fino ad arrivare alla sottoscrizione di un’intesa collettiva, per la tutela dei diritti di tutte quelle persone, accomunate, pur non conoscendosi, da uno stesso mestiere e da una stessa condizione. Quale atto più convincente e quale vittoria più grande su chi contesta il sindacato, ma si dimentica perché è nato.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@ilaria_armaroli
* Pubblicato anche in Linkiesta, 7 settembre 2015.