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Bollettino ADAPT 19 luglio 2021, n. 28
Negli scorsi mesi sono circolate molte stime sul numero di occupati che avrebbero lavorato da remoto durante la pandemia. Sondaggi, analisi e altri focus che parlavano del 30/35% sul totale degli occupati, con cifre tra i 5 e gli 8 milioni. Numeri importanti, soprattutto per un paese in cui i lavoratori che potevano vantare di eseguire da remoto la loro prestazione erano veramente pochi e all’ultimo posto in Europa. E numeri che hanno fatto parlare più e più osservatori, nell’ultimo anno e mezzo, di una rivoluzione in atto, di una incredibile accelerazione di un trend organizzativo che rispondeva allo zeitgeist del mondo del lavoro in età digitale. Negli scorsi giorni però il Rapporto annuale Istat ha invece ridimensionato molto la cifra parlando del 19% come picco durante il secondo trimestre 2020, un numero che si aggira quindi intorno ai 4,5 milioni di persone. E questo è appunto il picco, perché la media nel corso del 2020 si fermerebbe invece al 14%, poco sopra i 3 milioni. Cifra di certo maggiore rispetto agli anni precedenti ma che è lontana dal far pensare che la remotizzazione del lavoro sia l’inevitabile futuro della maggioranza dei lavoratori. Ci sarà modo di verificare prossimamente quanto questa cifra sia poi rimasta tale o se nel corso del 2021 sia cresciuta o diminuita, ma è difficile pensare che in una fase di normalizzazione delle condizioni organizzative del lavoro i numeri possano discostarsi eccessivamente da quanto osservato nei mesi più duri della pandemia. Mesi in cui erano in vigore norme in virtù delle quali o si lavorava da remoto o non si lavorava, questo almeno in molti settori produttivi. Sono cifre che frenano abbastanza l’entusiasmo, soprattutto se si entra nei dettagli e si vede come Istat osservi che la maggioranza di coloro che hanno lavorato da remoto l’ha fatto per non più del 50% delle ore lavorate settimanali. E sono cifre che ci allontanano da performance osservate in altri paesi in cui il 30% è stato raggiunto o superato.
Al di là del mero dato quantitativo è interessante però cercare di capire il perché di questo andamento. Da un lato ci sono ragioni strutturali legate alla composizione economica del tessuto produttivo italiano che vede una maggioranza di servizi di prossimità (retail, ristorazione, servizi alla persona) nei quali la dimensione fisica è essenziale per poter lavorare. Minore è invece la presenza di servizi di nuova generazione legati al settore bancario, finanziario, della consulenza ecc. Questo riduce la quota di lavoratori che possono svolgere lavoro da remoto. C’è poi un tema organizzativo che vede molte delle imprese italiane legate a modelli tipici dell’impostazione taylorista fondata su ordini e direttive da parte del datore di lavoro e dei responsabili intermedi e sul controllo della prestazione, controllo spesso esercitato in forma visiva e quindi sulla presenza fisica. Questo può condurre da un lato le imprese a non consentire il lavoro a distanza o a limitarlo al massimo e, dall’altro, i lavoratori a non voler lavorare sottoposti ad eccessive forme di controllo a distanza che sanno essere più invasive di quelle esercitate in presenza. Un ulteriore fattore è più in generale la polarizzazione dei livelli di innovazione e digitalizzazione delle imprese italiane, polarizzazione sia territoriale che soprattutto dimensionale.
Ma non si può escludere, e diverse indagini più recenti sembrano suggerirlo, che vi sia stata anche la volontà da parte dei lavoratori di tornare, non appena è stato possibile, in presenza. Questo a causa dell’emersione di numerose condizioni di disagio individuale connesse all’eccessiva solitudine, all’aumento dei carichi di lavoro, al venir meno della separazione tra momenti di vita e momenti di lavoro. Rischi psico-sociali di cui si era a conoscenza in astratto ma che la diffusione massiccia e repentina del lavoro a distanza, senza una vera innovazione organizzativa che li limiti, ha fatto emergere. Non è così scontato quindi che questa modalità di lavoro sia il futuro, se non in una quota importante ma marginale. I processi di digitalizzazione in parte lo suggeriscono se si proiettano i trend attuali nel futuro, ma le preferenze individuali delle persone non possono essere ignorate.
Questi numeri ci suggeriscono di mettere a tema uno dei punti deboli del nostro paese: l’organizzazione del lavoro. Ma di farlo senza innamorarci dei modelli ma rinnovando e innovando le fondamenta, liberando il lavoro dai lacci del novecento senza intervenire solo sulle forme esteriori.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Domani, 13 luglio 2021