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Bollettino ADAPT 12 aprile 2021, n. 14
Troppo spesso parlare di relazioni industriali in Italia coincide con il dipingere uno scenario di forti divisioni. Da ultima la discussione sul blocco dei licenziamenti o quella ancor più iconica sui rider, mentre sullo sfondo si staglia il macigno dei 945 mila posti di lavoro persi nel primo anno di pandemia. Questo vizio contribuisce a lasciare nell’ombra l’enorme mole di accordi territoriali ed aziendali che quotidianamente vengono stipulati nel nostro Paese dalle parti sociali e che, come già accaduto nella crisi precedente, contribuiscono non poco alla tenuta complessiva del tessuto produttivo.
Il Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia diffuso nelle scorse settimane da ADAPT prova a raccontare ogni anno questa ricchezza e questa vitalità degli attori delle relazioni industriali a partire da oltre 4.000 accordi aziendali. E leggere il 2020 da questo punto di osservazione è particolarmente interessante poiché si scopre quanto sia stato centrale il ruolo, spesso lasciato in secondo piano nel dibattito politico, di chi si è attivato e ha raggiunto intese a livello delle singole imprese. Basti pensare al fiorire di protocolli che sono succeduti a quello nazionale del 24 marzo 2020 e che hanno contribuito a non bloccare completamente, laddove le condizioni epidemiologiche e di salute e sicurezza del lavoro lo consentivano, la produzione e al recente rinnovo annunciato nei giorni scorsi. O agli accordi relativi al lavoro agile che, non senza fatica, stanno cercando di regolare uno strumento che si è diffuso in chiave emergenziale ma che richiede ora un processo di normalizzazione che implica non pochi cambiamenti organizzativi che variano da azienda a azienda. Ulteriore aspetto è poi il ruolo che è stato giocato dalla presenza in molte aziende di accordi che regolano il welfare aziendale e che sono riusciti spesso a contribuire ad una miglior gestione della pandemia grazie alla presenza di coperture sanitarie integrative o alla possibilità di rimodulazione degli orari di lavoro e dei permessi, incidendo anche positivamente sulle esigenze di conciliazione vita-lavoro.
Si tratta di alcuni esempi che si riferiscono ad un anno molto particolare che non trova precedenti nella storia recente, ma allo stesso tempo sono indice del fatto che le buone relazioni industriali possono essere la strada maestra verso la sostenibilità del lavoro nelle imprese, che il Rapporto approfondisce tentando di osservare la contrattazione nell’ultimo decennio. Sostenibilità non è solo quella ambientale, capitolo sul quale le relazioni industriali potrebbero fare molto di più di quello che oggi accade, ma sostenibilità dell’ambiente complessivo di lavoro. E quindi tentativo di una miglior tutela delle nuove esigenze del lavoro e delle nuove esigenze dell’impresa. Novità che è data soprattutto dalla lenta ma inesorabile scomparsa di una classe di lavoratori uniforme, di una massa indistinta che come tale era portatrice delle medesime esigenze senza particolari variazioni nei contesti territoriali e nei contesti aziendali. La verticalizzazione della produzione, l’impatto della digitalizzazione dei processi produttivi e il cambiamento della struttura demografica della forza lavoro impongono oggi invece scelte e strategie più particolari, per rispondere a bisogni mutevoli e mutati, non da ultimo quello dell’aggiornamento continuo delle competenze dei lavoratori, vera tutela di fronte all’incertezza.
In questo le relazioni industriali possono dar vita a soluzioni innovative, non senza conflitti e scontri anche aspri, che individuino strade per affrontare problemi che spesso il legislatore ignora o al quale non è in grado di dare una risposta. E lungi dall’essere una critica al mancato interventismo dello Stato nelle questioni economiche e sociali (tutt’altro che assente in Italia) rimettere al centro l’autonomia collettiva delle parti è un modo concreto di attuare una sussidiarietà che troppo spesso resta solo sulla carta. La sfida principale ora è quella di come le relazioni industriali e i suoi protagonisti possano accompagnare l’auspicata ripresa economica e come possano contribuire a ridisegnare luoghi di lavoro sostenibili alla luce di quanto la pandemia ci ha insegnato e di quanto ci lascerà in eredità.
Il danno più grande che questi soggetti possono fare a loro stessi, relegandosi ancor di più al mero ruolo di soggetto politico nazionale destinato a contare sempre meno e a sperare in una convocazione da parte del governo, è quello di non lasciare spazio alle numerose esperienze già in atto a livello locale e aziendale. Non per ridurre le tutele a livello nazionale, ma per lasciare spazio a quella diversità creativa che sola può rappresentare la strada dell’innovazione e della responsabilità che oggi è quanto mai necessaria. Ad oggi questo virtuoso raccordo tra livello nazionale e livello aziendale non è emerso pienamente, ma resta una urgenza per rilanciare il Paese.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2021