Basterebbe cambiare la data al saggio di Sidney Webb dal titolo The Economic Theory of a Legal Minimum Wage, per convincersi dell’attualità delle teorie dello studioso inglese, formulate all’inizio del Novecento, rispetto al dibattito contemporaneo sull’introduzione di un salario minimo legale. Tempi e modelli produttivi sono certo cambiati. E molto ancora sono destinati a cambiare. Pur tuttavia, recuperare il pensiero di uno dei padri delle relazioni industriali può essere un esercizio utile per meglio valutare una proposta legislativa che fa breccia nel cuore del nostro mercato del lavoro.
L’Inghilterra di inizio Novecento attraversava una profonda fase di industrializzazione. Il mercato del lavoro era frammentato, il “lavoro nero” diffuso e le ancor timide pratiche di contrattazione collettiva coprivano solo piccole porzioni della forza lavoro. È in questo scenario che emerse il dibattito sul salario minimo legale, istituto che, ieri come oggi, divideva esperti e opinione pubblica. Il Regno Unito introdusse la misura nel 1909 (anno del “British Trade Boards Act”), con carattere temporaneo e solo per alcuni settori, vale a dire quelli che, a discrezione del governo, presentavano livelli salariali particolarmente bassi. Webb, allora, si spese subito in favore del provvedimento, evidenziandone potenzialità e possibili implicazioni. Un po’ come noi oggi volgiamo lo sguardo oltre i confini nazionali alla ricerca delle migliori prassi, così Webb guardava con favore a quanto era stato fatto sul finire dell’Ottocento in Victoria (stato sud-orientale dell’Australia) con le cosiddette “Shop and Factory Laws”, leggi che introdussero un salario minimo legale in tutti quei settori che, su rilevazioni di appositi “Wage Boards”, segnavano livelli salariali «infimi». Inizialmente, solo sei settori vennero coperti dal minimo retributivo imposto per legge, ma nel 1904, alla luce dei buoni risultati ottenuti, l’istituto venne confermato ed esteso alla pressoché totalità dei settori produttivi, per essere quindi adottato nel 1911 da quasi tutti gli stati australiani (fece eccezione soltanto l’Australia Occidentale).
Nell’idea di Sidney Webb il salario minimo legale era innanzitutto una misura rispondente all’interesse della produzione. Il motivo è subito spiegato: un minimo salariale fissato per legge rappresenta una sicurezza cui gli imprenditori devono guardare di buon occhio, sicché consente di mettersi al riparo da «competitori disonesti e sleali». Si tratta di una ricostruzione che era peraltro già stata argomentata diffusamente dai coniugi Webb nella loro celebre opera Industrial Democracy (1897), ove si evidenzia che il salario minimo legale impedisce alle imprese di farsi strada sfruttando paghe basse, forzandole piuttosto a diventare competitive mediante l’apporto di innovazioni tecnologiche e modifiche produttive. Oggi come ieri, nel nostro Paese la diffusione di pratiche di concorrenza salariale al ribasso è preoccupante, seppur non ancora allarmante. Tali casi di dumping contrattuale si realizzano non solo attraverso i c.d. “contratti pirata”, e cioè accordi siglati da associazioni sindacali o datoriali minori e di dubbia rappresentatività, mirati a sbaragliare la concorrenza ed abbattere il costo del lavoro garantendo retribuzioni più basse del normale. Ma anche attraverso la pratica delle commesse date in appalto ad aziende che non applicano la contrattazione collettiva. Un salario minimo legale potrebbe forse non costituire una soluzione completa al problema, giacché fenomeni di concorrenza al ribasso arrivano spesso ad includere condizioni contrattuali normative, ma assicurerebbe comunque un argine ai dilaganti casi di “dumping” salariale.
Le motivazioni a sostegno di un minimo retributivo imposto per legge toccavano anche aspetti e problemi propriamente sociali. Webb stimava che nel Regno Unito 8 milioni di persone (1 milione nella sola Londra) vivevano sotto la soglia di povertà, in quegli anni fissata a circa 5 sterline per settimana. Costoro, seppur lavorando, erano così poveri da non aver nemmeno forze ed energie sufficienti per risultare produttivi sul lavoro, inoltre con innegabili ricadute negative sullo stato di salute. Si tratta di coloro che oggi, insomma, chiameremmo “working poor”, vale a dire le fasce dei lavoratori schiacciate ai bassi margini di un mercato del lavoro sempre più polarizzato. Tale criticità, che secondo lo studioso inglese era allora arginabile proprio attraverso l’introduzione di un minimo retributivo fissato per legge, è un tratto tipico dei nostri tempi e di quelli che verranno. Oggi una cospicua cerchia di lavoratori, numericamente incrementata dalla crisi economica, si ritrova sotto la soglia di povertà relativa (secondo le ultime stime oltre il 12% degli occupati) e non dispone di una copertura contrattuale. La diffusione di questa realtà, come già ad inizio Novecento notava Webb, oltre a generare l’erosione del potere di acquisto dei lavoratori, è associata al rischio di fenomeni di criminalità, condizioni di salute precarie e crescenti difficoltà di inclusione sociale.
Un ulteriore connotato del nostro mercato del lavoro è la crescente incidenza delle nuove forme di lavoro atipico. Già ai tempi di Webb, quando si affermava il concetto di lavoro subordinato, v’erano categorie di lavoratori sguarnite dalla contrattazione collettiva, tradizionalmente fuori dalla portata delle garanzie offerte dalle “Trade Unions”; oggi, quando il concetto di lavoro subordinato sembra aver in parte perso centralità, i lavoratori più sfuggevoli alla contrattazione collettiva e ai sistemi di rappresentanza sono i lavoratori atipici e autonomi, espressione del post-fordismo e della terziarizzazione dell’economia europea. È anche e soprattutto tra queste tipologie di lavoratori che aumenta significativamente la quota di soggetti sotto la soglia di povertà relativa. Un salario minimo legale generalizzato e fissato per legge potrebbe dunque rappresentare un pavimento retributivo anche per queste nuove forme di lavoro. Senza scordare che, come sosteneva Webb stesso, il sindacato potrebbe trarre sostegno e slancio da un minimo salariale imposto per legge così da agganciare queste categorie altrimenti difficili da organizzare.
Per rinsaldare il sistema socioeconomico, Webb arrivò persino ad immaginare un insieme di regole comuni riguardante non soltanto i minimi retributivi, bensì anche le condizioni normative di lavoro, quali standard di sicurezza ovvero regimi di orario. Coerentemente, occorreva dotarsi di un esaustivo codice del lavoro in grado di prescrivere le condizioni minime entro cui le aziende potevano operare. Intuizione questa non distante da quello che chiede oggi all’Unione europea chi si è spinto ad immaginare un salario minimo comunitario, peraltro di recente non escluso dal presidente della Commissione Europea in carica Jean-Claude Junker. Per dirla con le parole dello stesso Webb, «dobbiamo aspettarci di vedere le condizioni di lavoro, salari compresi, definite una a una da dei minimi imposti per legge, non solo in questo o quel settore, ma in tutta l’industria; non solo in questo o quel paese, ma gradualmente in tutto il mondo civilizzato».
Il pensiero di Webb si può condividere o meno, la convinzione è però che, in una qualche misura, le sue deduzioni abbiano ancora oggi una forte valenza. Lo studioso inglese, infatti, oltre cent’anni or sono, provò ad intercettare la grande trasformazione del lavoro di allora, esprimendo dei concetti che calzerebbero in molti dei dibattiti cui assistiamo. Il salario minimo legale, a maggior ragione oggi, potrebbe costituire un importante strumento di garanzia sociale. Il fenomeno dei “contratti pirata”, la diffusione della c.d. “working poverty”, nonché l’estesa incidenza di forme di lavoro spesso prive di tutela, con particolar riferimento ai lavoratori immigrati, autonomi e atipici, sono questioni che chiedono risposta. Da questo punto di vista, un salario minimo imposto per legge e su base oraria potrebbe rappresentare non soltanto un elemento di protezione salariale, ma altresì un argine alle diseguaglianze retributive e sociali.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
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