Percorsi di lettura sul lavoro/1 – L’uomo artigiano di Richard Sennett

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Bollettino ADAPT 6 maggio 2019, n. 17

 

Richard Sennett, L’uomo Artigiano, Feltrinelli Editore, Milano 2012 (2008)

 

La domanda con cui si apre l’ormai celebre testo di Richard Sennet è la seguente: «che cosa ci rivela su noi stessi il processo di produrre cose materiali?» (Sennett, 2012, p. 17). Fin da subito, l’autore si concentra sul tema della “coscienza materiale”: sull’idea, cioè, che le facoltà umane, anche quelle superiori quali il ragionamento, nascono dall’azione nel mondo e dal diretto rapporto con esso. Anche la stessa immaginazione nasce e si sviluppi proprio a partire dal fare pratico. Già dal prologo, è quindi chiara l’antropologia di riferimento dell’autore, che si rifà esplicitamente al pragmatismo americano: l’agire dell’uomo nel mondo, e in particolare l’agire lavorativo, è fonte di senso e strumento per la costruzione di significati comuni.

 

Compiendo un paragone apparentemente azzardato, l’autore accosta i maestri artigiani medievali ai programmatori di Linux. L’accostamento evidenzia come non si voglia delimitare l’idea di fare artigiano al fare “materiale” e tradizionalmente legato alla bottega medievale e rinascimentale: il lavorare in comune, con altri, basandosi sull’immaginazione e sulla tecnica, è proprio di ogni lavoro, in qualsiasi epoca storica e in qualsiasi contesto. Il “bug” in cui incappano i programmatori è come l’imperfezione nell’opera del falegname: in entrambi i casi, si incontra un ostacolo che chiede di essere compreso e superato, grazie alla creatività e all’impegno. Allo stesso tempo, la distanza tra la bottega dell’artigiano e il lavoro contemporaneo si percepisce almeno per due motivi: due fenomeni oggi diffusi sono la (possibile) demoralizzazione dei lavoratori causata dal dirigismo d’impresa, e la competitività sfrenata dei mercati. Se il lavoratore non ha il tempo (materiale) di capire il senso di ciò che sta facendo, di individuare possibili migliorie e di affinare la sua tecnica, il lavoro gli è sottratto e diventa qualcosa di astratto e, inevitabilmente, qualitativamente inferiore. È interessante l’esempio che viene fatto a riguardo: l’autore racconta di un suo viaggio in URSS nel 1988, dove vide palazzi mal costruiti da lavoratori demotivati, che sebbene riconoscessero la scarsa qualità della loro opera, non se ne curavano. Il lavoro ben fatto ha infatti come presupposto la partecipazione del lavoratore al processo lavorativo, partecipazione consapevole e attiva, oggi paradossalmente messa in difficoltà dal dirigismo e dalla frenesia dovuta all’estrema competitività economica. Passività e prassi si accompagnano invece ad una visione “astratta” del lavoro stesso, con i risultati di qui sopra. L’autore vuole trasmettere un’idea di lavoro artigiano come sintesi di abilità tecnica e comunità, all’interno di un contesto temporale “a misura d’uomo”, un “fare” possibile solo tenendo assieme “mano e testa”.

 

Approfondendo il tema della comunità, l’autore identifica, anche in questo caso, analogie e differenze tra il lavoratore medievale e la contemporaneità. La mobilità degli apprendisti medievali è nota, e viene paragonata alla più moderna “flessibilità”: di certo però, il lavoratore medievale aveva un duplice patrimonio, scaturente dalla sua identità “professionale”: una comunità di riferimento (le confraternite e le corporazioni) e un bagaglio tecnico inalienabile. Entrambi, però, si basano sul concetto (sociologico) di autorità: su un’idea di sapere che poteva essere trasmesso solo per mimesis, per imitazione, attraverso, appunto, il rapporto tra maestro e apprendista. Quando la bottega, lentamente, si spegne, l’artigiano diventa artista: il suo sapere non è più una costruzione partecipata all’interno di un laboratorio, composto da maestri e da apprendisti, realizzata grazie a numerosi tentativi e con l’immaginazione: diventa sempre più un sapere tacito e privato. L’autore cita quindi l’esempio della bottega di Stradivari: il grande maestro liutaio, geloso della sua abilità tecnica, portò i suoi segreti nella tomba, di fatto generando un grande calo della qualità della liuteria cremonese. Nell’artigianato, invece “il soggetto è collettivo”. Infatti: «I lavoratori scarsamente motivati, come i muratori sovietici, i lavoratori depressi, come i medici e le infermiere del servizio sanitario nazionale in Inghilterra, sono in sofferenza non tanto per il lavoro che svolgono, quanto per il modo in cui esso è strutturato. Ecco perché non si dovrebbe rinunciare all’idea del laboratorio come spazio sociale. I laboratori, passati e presenti, hanno sempre creato vincoli tra le persone; attraverso una serie di riti, si tratti della tazza di tè da bere insieme o dalla processione cittadina; attraverso la trasmissione di saperi, si tratti dell’assunzione ufficiale della funzione paterna nel medioevo o dei consigli dati informalmente nel luogo di lavoro; e attraverso la condivisione faccia a faccia di informazioni» (p. 77).

 

Dopo aver approfondito il tema della comunità come “laboratorio”, l’autore analizza quindi la stringente tematica delle “macchine”: la techne. Attraverso un’analisi del rapporto tra uomo, lavoro e macchine già contenuto nell’Enciclopedia illuminista, l’autore sostiene che «Il modo “illuminato” di usare una macchina consiste nel giudicarne la potenza e nell’immaginarne l’uso alla luce dei nostri limiti umani, piuttosto che delle potenzialità della macchina. Non dovremmo competere con la macchina […] Contro la pretesa di perfezione, possiamo affermare invece la nostra individualità, che è ciò che conferisce un carattere distintivo al lavoro che svolgiamo» (p.. 107). Al contrario, l’idea romantica del rapporto tra uomo e macchina vede nella seconda l’inevitabile nemica del primo. L’autore approfondisce quindi l’idea di coscienza materiale, già richiamata nella prefazione: nell’esperienza lavorativa dell’artigiano di ogni epoca, sta l’idea di un rapporto con il mondo per il quale esso non è una massa inerte da modellare, ma un’alterità in rapporto alla quale costruire la propria identità. Lavorando, l’artigiano diventa più sé stesso, più uomo. Secondo l’autore, infatti, «l’artigiano rappresenta in ciascuno di noi il desiderio di fare bene una cosa, concretamente, per sé stessa» (p. 143).

 

La seconda parte del volume si apre con una citazione di Kant: «la mano è la finestra della mente» (p. 147). L’autore approfondisce il rapporto tra corpo e mente, attraverso il fenomeno della manualità, nelle sue diverse declinazioni: dal semplice toccare, all’abilità dell’artigiano che “sente” i nodi nel legno, al musicista che suona il pianoforte. La manualità – riflesso concreto della coscienza materiale sopra richiamata – è quel fenomeno prettamente umano che mostra come la conoscenza viene costruita: per tentativi, in modo non lineare nè deterministico, ma attraverso la simultanea partecipazione di tutti i sensi. L’idea di fondo è che le diverse facoltà umane, anche quelle superiori, hanno la propria origine antropologica nella manualità e nel rapporto mente-corpo: la percezione della realtà garantita dal nostro “semplice” essere al mondo rappresenta la matrice originaria di ogni nostro sapere. La direzione è qui dal corpo alla mente, dalle facoltà inferiori a quelle superiori: ma è vero anche il percorso inverso. Un esempio è quello del linguaggio espressivo, approfondito dall’autore con alcuni esempi culinari, attraverso il quale «le istruzioni espressive riconnettono il mestiere tecnico con l’immaginazione» (p. 186).  Allo stesso tempo, gli stessi attrezzi materiali (e non solo linguistici) possono generare conoscenze: in base allo strumento utilizzato (che sia un bisturi o un telescopio), e al suo ripetuto utilizzo, è possibile favorire l’intuizione, cioè l’immaginazione messa in pratica. Secondo l’autore, infatti, «l’intuizione può essere costruita» (p. 204). Trattando quindi di manualità, di linguaggio, e di strumenti l’autore vuole riconsegnarci un’idea di uomo materiale, saldamente radicato nella concretezza del suo vivere e, soprattutto, del suo lavorare: una concretezza che però non è ottusa, ma capace di immaginazione, creatività, costruzione di senso per sé e per il proprio lavoro. L’immaginazione che nasce dal fare pratico, fatta di tentativi ripetuti, di rapporto costante con l’ambiguità e con la resistenza del materiale con cui lavoriamo, è la stessa di cui abbiamo bisogno nel rapportarci con la tecnica: quest’ultima non deve essere vista come un mostro senza volto, o un destino ineluttabile e negativo. Nella tecnica può essere scorto invece un utile strumento al miglioramento della vita dell’uomo, a patto che però quest’ultimo la guardi da “artigiano”: con l’immaginazione concreta e materiale che stiamo ora descrivendo.

 

Nell’ultima parte, l’autore si concentra inizialmente su “l’ossessione della qualità”. Questa può essere negativa, nel momento in cui provoca gerarchizzazioni escludenti e la svalutazione delle persone. Un elemento fondamentale per trasformare l’ossessione in desiderio è socializzare l’agire lavorativo: «la motivazione personale non è separabile dall’organizzazione sociale […] Le istituzioni devono assumersi la socializzazione [del lavoratore asociale], e il lavoratore deve imparare a gestire la cieca competività. La pulsione a fare al meglio il proprio lavoro può dare alle persone il senso di avere una vocazione; è mal costruita quella istituzione che ignora nei suoi membri l’aspirazione a una vita lavorativa che abbia un senso; mentre le organizzazioni ben costruite sanno trarre forza da questo». (p. 254). Quest’ultimo passaggio sembra un invito a tornare – senza nostalgia – al laboratorio artigiano. Successivamente, l’autore ribadisce che ognuno di noi può essere un bravo artigiano, riprendendo il tema delle capability, e contrastando il mito della competenza astratta: l’agire lavorativo, più che un’asettica procedura, assomiglia infatti al gioco. La motivazione, in questo caso, è più importante del talento, in quanto è la componente emotiva (intesa in senso ampio) a fare la differenza: «La capacità di ben fare è distribuita abbastanza equamente tra tutti gli esseri umani; si manifesta inizialmente nel gioco e si perfeziona, nell’attività lavorativa, nelle capacità di localizzare i problemi, di porre domande e di creare nuove aperture. Non la mancanza di risorse intellettuali, ma la cattiva gestione a livello emotivo della pulsione a lavorare nel modo migliore può costituire un pericolo per l’artigiano; la società può rendersene tacitamente complice oppure cercare di correggere tale debolezza» (p. 271).

 

Concludendo, l’opera prima dell’artigiano è lui stesso: lavorando, costruisce sé stesso. Questa, in sintesi, è la coscienza materiale: essere uomini vuole dire abitare un mondo la cui alterità rende possibile un processo di scoperta e di crescita continua che, se socialmente condiviso e vissuto, porta prima di tutto alla formazione di relazioni migliori e più ricche: una migliore relazione tra l’uomo e il suo lavoro, e tra l’uomo e i suoi simili. Una relazione che passa dalla corporeità umana, fonte prima di conoscenza su di sé e sul mondo, per arrivare a un’idea di lavoro collaborativo, plurale, creativo, immaginativo, partecipato. Un’idea, insomma, che non si limita alla bottega artigiana, che può essere ancora oggi attuale.

Il testo in analisi è particolarmente interessante anche per l’idea di rapporto tra uomo e lavoro che lascia emergere, utile per leggere la grande trasformazione in atto, ed è quindi di grande attualità. Se infatti chiedessimo a Sennett, riprendendo come interrogativo il principio promosso dall’International Labour Organization (ILO): il lavoro è una merce? Potrebbe dare due risposte, entrambe negative, ma per due ordini di ragioni diversi. Per prima cosa, il lavoro non è una merce perché è sempre un uomo che lavora. Le macchine non lavorano. L’uomo lavora quando esprime la sua soggettività in un processo trasformativo di un’alterità, e non esiste attività lavorativa che impedisce alla radice e a priori questo processo. Ci possono, invece, essere condizioni esterne che mercificano il lavoro, come abbiamo visto nella “riduzione” del laboratorio artigiano e, conseguentemente, del lavoro da fatto plurale a solipsismo, quasi ad un “arte”. Di per sé, se nell’attività del lavoro l’uomo riscopre un senso per sé, anche se le condizioni esterne sono negative il suo agire può non ridursi a merce. Il secondo ordine di ragioni è connesso a quest’ultimo punto: il contesto e l’organizzazione del lavoro. Il lavoro non è una merce perché è una pratica intrinsecamente plurale e intersoggettiva, propria della comunità umana. Intrinsecamente plurale perché si lavora sempre in un orizzonte plurale, sociale: solo l’artista, al limite, può lavorare per un fine intrinseco e autoreferenziale (“l’arte per l’arte”). Quindi, l’identità umana (l’umanità dell’uomo) e l’intersoggettività comunitaria sono due elementi che permettono di affermare l’irriducibilità del lavoro umano a merce, pur ricordando le minacce “alienanti” sopra ricordate.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

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