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Bollettino ADAPT 7 ottobre 2019, n. 35
Hannah Arendt, The human condition (1958), tr. it. Vita activa di S. Finzi, Bompiani, Firenze 2017
Il percorso di lettura sui classici del lavoro si conclude con il saggio “Vita activa” di Hannah Arendt. In quest’opera dall’ampio respiro, l’autrice non si limita ad esporre la propria teoria politica, ma compie una spregiudicata analisi della società di massa nascente e un’accorata denuncia della condizione dell’uomo contemporaneo condannato a una sostanziale solitudine. La classificazione delle attività umane presentata in queste pagine fornisce uno spunto innovativo per ripensare il lavoro oggi.
L’autrice esordisce spiegando cosa debba intendersi per “vita activa” – una locuzione carica di storia e densa di significato -, e quali siano i tre elementi che la compongono. «Con il termine vita activa propongo di designare tre fondamentali attività umane: l’attività lavorativa (labour), l’operare (work) e l’agire (action); esse sono fondamentali perché ognuna corrisponde a una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all’uomo.» (p. 40) Tutte e tre le attività lavorative e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più generali dell’esistenza umana: nascita e morte, natalità e mortalità.
L’insolita proposta di Arendt di distinguere tra lavoro e opera – distinzione estranea sia alla tradizione del pensiero politico premoderno sia al corpus delle moderne teorie del lavoro -, trova una conferma eloquente nel «semplice fatto che ogni lingua europea, antica e moderna, possiede due termini etimologicamente molto distinti per ciò che noi siamo portati a considerare una stessa attività.» (p. 106)
La separazione arendtiana tra lavoro e opera riecheggia infatti «l’antica distinzione greca tra il cheirotechnes, l’artigiano, e quelli che come schiavi e animali addomesticati con i loro corpi provvedono alle necessità della vita, o, nell’idioma greco, to somati ergazesthai, operano con i loro corpi.» (p. 106).
Nell’ordine gerarchico in cui Arendt dispone i tre elementi della vita activa, rifacendosi al pensiero classico, l’attività lavorativa risulta essere all’ultimo posto (preceduta dall’operare e dall’agire, che occupa appunto la prima posizione). L’attività lavorativa comprende dunque tutte le svariate occupazioni solitarie intraprese dall’uomo con il solo scopo di mantenere e riprodurre la vita. Inoltre «è caratteristico di ogni lavoro il fatto di non lasciar nulla dietro di sé, il fatto che il risultato del suo sforzo sia consumato quasi con la stessa rapidità con cui lo sforzo è speso. E tuttavia questo sforzo, malgrado la sua labilità, nasce da un grande bisogno ed è motivato da un impulso più potente di qualsiasi altro, perché la vita stessa vi si fonda.» (p. 111).
Al contrario, «i prodotti dell’operare garantiscono la permanenza e la durevolezza senza le quali un mondo non sarebbe possibile.» (p. 116). L’opera delle nostre mani, distinta dal lavoro del nostro corpo – l’homo faber che fa e letteralmente opera, distinto dall’animal laborans che lavora e si mescola con – assicura all’uomo i mezzi di sopravvivenza che costituiscono il suo mondo artificiale. E se anche la durevolezza di questo mondo non è assoluta, dal momento che l’uso che si fa dei beni d’uso ne provoca un logoramento, Arendt argomenta che «le cose del mondo hanno la funzione di stabilizzare la vita umana, e la loro oggettività sta nel fatto – in contrasto con il detto eracliteo che lo stesso uomo non può mai bagnarsi due volte nello stesso fiume – che gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo.» (p. 156).
Arendt caratterizza ulteriormente l’operare rispetto all’attività lavorativa anche in base all’orientamento temporale ad esse sottese. Se dunque il tempo per l’animal laborans è circolare e naturale – dal momento che i prodotti dell’attività lavorativa vengono immediatamente consumati, in accordo con il movimento ciclico della natura e dell’organismo vivente -, l’operare (work) introduce una concezione alternativa del tempo, di tipo lineare e pienamente umano. Il manufatto ha infatti lo scopo di persistere nel tempo oltre la vita del suo creatore e di rimanere permanentemente nel mondo, disponibile per i posteri. L’operare offre il vantaggio di uscire dai limiti biologici della natura, ricompensando il creatore con la possibilità di una sorta di immortalità, ed è governato da una visione teleologica, che rimanda cioè ad un fine superiore.
Infine, la dimensione dell’agire, la cui trattazione da parte dell’autrice non è, diversamente dalle altre due declinazioni della condizione umana, meramente descrittiva bensì normativa. Arendt esordisce affermando che a rivelare l’unicità del singolo uomo sono, insieme, discorso e azione: «mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente distinti; discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini.” (p. 194).
La condizione umana (titolo originale del saggio preso in esame, “The human condition”) consiste proprio nella condivisione di azioni e parole. Discorso e azione si presentano come i due modi propri dell’agire. In particolare, l’azione, intesa arendtianamente come cominciamento, corrisponde al fatto umano della nascita, mentre il discorso è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico essere tra uguali.
Tra azione e discorso intercorre un legame molto stretto, anzitutto perché l’azione umana può avvenire solo in un ambiente di pluralità, cioè in un contesto sociale, che è lo spazio del discorso. In secondo luogo, «azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificatamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”» (p. 196). Dunque, il rivelarsi del proprio essere, della propria individualità e della propria personalità è implicito sia nelle parole che nelle azioni.
Scrive Arendt: «Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelando attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano. […] Questo rivelarsi del “chi” qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” – le sue qualità e capacità, i suoi talenti, che può esporre o tenere nascosti – è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo silenzio e nella perfetta passività». (pp. 197-198).
La capacità di rivelarsi del discorso e dell’azione emerge quando si è con gli altri; non per, né con altri, ma nel semplice essere insieme agli gli altri. Sebbene nessuno sappia chi egli riveli quando si esprime con gesti o parole, tuttavia deve correre il rischio della rivelazione. L’azione infatti, diversamente dalla fabbricazione, non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire. Azione e discorso necessitano della presenza degli altri, allo stesso modo in cui la fabbricazione necessita della presenza della natura e dei suoi materiali, e di un mondo in cui collocare il prodotto finito.
Per Arendt l’azione è l’attività con la quale gli uomini entrano in rapporto tra loro, senza la mediazione di cose naturali o artificiali, ma è anche una manifestazione della pluralità del mondo umano, ovvero il fatto che sulla Terra ci siano gli uomini e non un solo uomo. Questa pluralità è specificamente la condizione di ogni vita politica. L’azione e il discorso sono fondativi dello spazio delle relazioni umane. Quindi l’azione è tipica dell’uomo inteso come animale politico.
Nell’attuale contesto di profonda trasformazione del mondo del lavoro e del concetto di lavoro stesso, le pagine dedicate da Arendt alla distinzione tra lavoro, opera e azione risuonano di grande attualità. Nel corso del Novecento, con il termine “lavoro” si rappresentava il labour/job, inteso come attività lavorativa esercitata ai fini della sussistenza, che corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, e che l’economia capitalista inquadra nella forma del lavoro salariato. Allo stesso modo, il lavoro salariato ha identificato anche l’opera (work) come operato delle nostre mani, distinta dal lavoro del nostro corpo e volta alla fabbricazione del mondo artificiale dell’uomo. La rivoluzione industriale ha portato alla coincidenza delle dimensioni di lavoro e opera, mentre l’opera stessa è oggi un concetto estendibile non solo alla creazione di manufatti o alla partecipazione al loro processo produttivo, ma anche a quella di servizi, soprattutto se prodotti su scala industriale. E l’economia classica ha elevato ad oggetto unico del proprio studio l’opera, spesso confondendola e sovrapponendola al lavoro come necessità, errore che la Arendt imputa a Marx.
L’azione, al contrario, viene distinta dal lavoro in senso economicista in quanto ambito della libertà, e quindi afferente al mondo del non-lavoro. Ma il lavoro contemporaneo contiene in sé i semi dell’azione intesa in senso arendiano, più che dell’opera di fordiana memoria. Siano essi la dimensione relazionale, che emerge nel lavoro di cura e nel lavoro domestico, lo scambio di formazione ed esperienza di vita che realizza l’apprendistato, l’altruismo del lavoro nel terzo settore, nell’associazionismo e nel volontariato; ma anche i lavori più creativi dell’universo 4.0, quello del lavoro di ricerca, delle start-up innovative e dei servizi di nuova generazione.
Tutto questo non significa certo che scompaiano dall’orizzonte delle attività lavorative il lavoro e l’opera. Piuttosto, nella complessità della trasformazione in corso, le tre dimensioni possono oggi ampiamente dialogare tra di loro non solo in ambito economico, ma anche su un piano normativo e giuridico, più di quanto non sia avvenuto nella stagione del fordismo e dell’industrialismo, aprendo così uno spazio reale per scenari ed esperienze che si collocano oltre una limitante ontologia economicista del lavoro.
ADAPT Junior Fellow