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Bollettino ADAPT 15 luglio 2019, n. 27
Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1905), tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2014
Con “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, celebre lavoro del sociologo tedesco Max Weber, continua il ciclo di letture sui classici del lavoro già avviato con l’opera di Herbert Marcuse On the Philosophical Foundation of the Concept of Labor.
L’opera di Weber, che si compone di due saggi, argomenta l’intuizione di una connessione tra la Riforma protestante e la genesi del capitalismo moderno, tesi suffragata dal maggior sviluppo economico dei paesi protestati come l’Olanda e l’Inghilterra rispetto ai paesi di fede cattolica come la Spagna e l’Italia. Si tratta di una teoria suggestiva, che ha alimentato un ampio dibattito e sollevato numerose critiche. Molti commentatori hanno sottolineato, tra le altre cose, che il capitalismo come organizzazione economica e sociale non sia sorto in territori protestanti, bensì durante il Medioevo, nelle città-stato cattoliche dell’Italia centro-settentrionale. Weber, tuttavia, non si è mai espresso nei termini di un’evidenza storica tra l’etica protestante e l’affermazione dello spirito capitalistico, limitandosi ad evidenziare influssi e analogie.
Le ragioni per cui la confessione riformata sia stata più favorevole allo sviluppo della civiltà capitalistica, rispetto ad altre fedi, non è da rintracciare nel «gusto per la vita più o meno materialistico o almeno antiascetico che si pretende di attribuirgli» (Weber, 2014, p. 69). Come il cattolicesimo, infatti, anche il vecchio protestantesimo di Lutero e Calvino era contrario al piacere mondano e devoto all’ascetismo. L’affinità di alcune espressioni del primo protestantesimo con lo spirito del capitalismo moderno si ritrovano piuttosto nei «suoi tratti puramente religiosi.» (p. 69) La ragione fondamentale della diversità di comportamento deve dunque essere cercata nel carattere interno, spirituale costante, e non solo nelle particolari situazioni esterne, storico-politiche, delle varie confessioni.
Per chiarire cosa si debba intendere con “spirito capitalistico” Weber ricorre ad una citazione di Benjamin Franklin in cui viene tracciato il profilo dell’uomo onesto degno di credito, moralmente tenuto ad accrescere il proprio capitale. Ma il testo di Franklin assume anche il carattere di una massima etica a cui uniformare la vita. Lo spirito del capitalismo moderno occidentale è infatti da intendersi in questa sede non semplicemente come una tecnica di vita, come “abilità negli affari”, ma come un peculiare ethos – un comportamento la cui violazione è trattata come negligenza ad un dovere. Una forma di capitalismo è esistita in Cina, in India, a Babilonia, nel mondo antico e nel Medioevo, ma peccava appunto di questo particolare ethos secondo il quale il lavoro non è al servizio dell’uomo, bensì l’uomo stesso vive in funzione del reddito che produce.
Le virtù dell’ethos capitalistico sono da considerarsi tali proprio perché hanno una valenza utilitaristica: l’onesta è utile, poiché procura credito, e lo stesso vale per la puntualità, la diligenza, la moderazione. Tuttavia, «il summum bonum di questa etica – guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo – è così spoglio di ogni considerazione eudemonistica o addirittura edonistica, è pensato come fine a se stesso con tanta purezza, da apparire come alcunché totalmente trascendente, in ogni caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla felicità o all’utilità del singolo individuo. L’attività lucrativa non è più in funzione dell’uomo quale semplice mezzo per soddisfare i bisogni materiali della sua vita, ma, al contrario, è lo scopo della vita dell’uomo, ed egli è in sua funzione.» (p. 76)
Lo stile di vita capitalistico incarnato dal passo di Franklin contiene una serie di sentimenti che si ispirano alla dimensione religiosa. «Il guadagno di denaro – se ha luogo legalmente – all’interno dell’organizzazione economica moderna, è il risultato e l’espressione dell’abilità nella professione [Beruf].» (p. 76) Nella parola tedesca Beruf – equivalente all’inglese calling – riecheggia una rappresentazione religiosa, ovvero quella di adempiere il proprio dovere personale come compito assegnato da Dio. Il lavoro professionale del calvinista, che è al servizio della vita terrena della collettività, «è semplicemente lavoro in maiorem gratiam Dei.» (p. 169) Si tratta di un’idea peculiare dell’etica sociale della civiltà capitalistica, che l’antichità e il Medioevo avrebbero condannato come espressione della più sordida avarizia. Puntualizza Weber: «l’utilità di una professione, con la corrispondente approvazione da parte di Dio, si giudica in primo luogo secondo criteri etici, e in secondo luogo secondo l’importanza per la collettività dei beni che vi si producono; poi segue il terzo criterio, che naturalmente è quello praticamente più importante: il profitto economico privato.» (p. 221) Il profitto derivante dall’attività professionale è la comprova dello stato di grazia in cui l’individuo si trova: è infatti il lavoro, e il successo che ne consegue, ad assicurare al protestante che Dio è con lui, che egli è l’eletto, il predestinato. La ricchezza è quindi moralmente lecita, e addirittura obbligatoria; diventa pericolosa solo se induce ad adagiarsi nell’ozio e a godere peccaminosamente della vita.
La concezione del dovere professionale veicolata dall’etica capitalistica educa e crea i soggetti economici – imprenditori e operai – di cui il capitalismo ha bisogno. Chi non adatta la sua condotta alle condizioni del successo capitalistico va in rovina, o quanto meno non emerge: «il fabbricante che agisce costantemente contro queste norme, infatti, è economicamente eliminato con la stessa infallibilità con cui l’operario che non può o non vuole adattarsi ad esse finisce sulla strada, disoccupato.» (p. 77) L’ascesi protestante agisce contro il godimento spensierato del possesso e restringe il consumo, specialmente quello del lusso.
Lo spirito del capitalismo quale stile di vita ben preciso si è affermato dopo una dura lotta contro un mondo di forze nemiche. L’avversario principale fu quel modo di sentire e di comportarsi che si può chiamare “tradizionalismo”. L’uomo tradizionale, o precapitalistico, si rifiutava di lavorare di più per ricevere un compenso maggiore, accontentandosi di guadagnare quanto necessario per vivere. L’epoca precapitalistica si caratterizza infatti per la mancanza della valorizzazione razionale del capitale nell’impresa e l’organizzazione capitalistica razionale del lavoro non erano ancora diventate potenze tali da determinare l’orientamento dell’agire economico. Sarebbe dunque sbagliato ritenere che lo spirito del capitalismo si sia diffuso contestualmente all’affermazione storica del capitalismo quale sistema economico-produttivo specifico dei XIX-XX secoli. Nel paese natale di Franklin, il Massachussetts, lo spirito capitalistico esisteva già nel XVII secolo, così come in altre colonie della Nuova Inghilterra.
Altrettanto scorretto sarebbe identificare lo spirito del capitalismo con la sete di lucro, come se «nelle epoche precapitalistiche l’impulso al profitto fosse ancora ignoto o non fosse sviluppato, o perché l’auri sacra fames, l’avidità di denaro, allora (o anche oggi) al di fuori del capitalismo borghese fosse minore, rispetto alla sfera specificatamente capitalistica, secondo l’illusione nutrita dai romantici moderni.» (p. 79) Non sta qui la differenza tra lo spirito capitalistico e quello precapitalistico: il guadagno senza scrupoli, non vincolato da nessuna legge interna, c’è sempre stato. Non furono infatti gli speculatori senza scrupoli o i grandi finanzieri che si possono incontrare in tutte le epoche della storia ad alimentare lo spirito della vita economica capitalistica. La differenza tra capitalismo e tradizionalismo risiede invece nel nuovo spirito orientato ad un guadagno razionalmente gestito di «uomini educati alla dura scuola della vita, riflessivi, ponderati, e audaci al tempo stesso, ma soprattutto sobri, costanti, e dediti interamente all’oggetto della loro attività, secondo princìpi rigorosamente borghesi.» (p. 92) La condotta di vita del tipo ideale dell’imprenditore capitalista è votata all’ascetismo, dal momento che non trae piacere personale dalla ricchezza accumulata, ma solo un sentimento di soddisfazione e pacificazione derivante dall’aver svolto il proprio dovere professionale.
Che la qualificazione etica della vita professionale capitalistica sia stata incentivata anche dalla Riforma Protestante è un fatto indiscutibile; non è tuttavia lecito attribuire a Lutero un’affinità interiore con lo spirito capitalistico. Al contrario, l’autorità della Bibbia da cui il monaco ha tratto il concetto di Beruf, lo ha portato inesorabilmente ad adottare un atteggiamento tradizionalistico. I passi dell’Antico e del Nuovo Testamento che trattano questioni economiche, infatti, invitano ciascuno ad accontentarsi del suo sostentamento, bollando come empi coloro che invece perseguono lauti guadagni. Un impulso più marcato nella storia del capitalismo l’hanno invece conferito gli esponenti del protestantesimo ascetico, come i calvinisti, i pietisti, i metodisti e gli aderenti al movimento battista. Nonostante gli obiettivi dei fondatori di queste comunità fossero puramente religiosi, gli effetti delle loro riforme nella storia della civiltà furono in buona parte imprevisti, investendo anche l’ambito economico.
La straordinaria attualità del testo in esame è spigionata proprio dal concetto di Beruf, ossia dalla professione come conseguenza di una vocazione divina, e dalla portata salvifica dell’attività lavorativa. L’idea peculiare del dovere professionale che oggi è così corrente – l’idea di un dovere che l’individuo deve sentire e sente nei confronti del contenuto della sua attività professionale, quale essa sia – è caratteristica dell’etica sociale della civiltà capitalistica. Anche se oggi il capitalismo non ha più bisogno del alcun sostegno religioso, l’aver concepito la ricchezza guadagnata quale segno tangibile della grazia di Dio ha alimentato una certa considerazione stigmatizzata del lavoro. Se nella modernità protestante il lavoro veniva considerato lo scopo stesso della vita prescritto da Dio, oggi, chi lavora è ben visto, mentre chi è disoccupato o inattivo, è soggetto a discredito sociale, indipendentemente dalle cause di tale situazione. Permane dunque anche oggi il valore salvifico dell’occupazione lavorativa, con implicazione e risvolti importanti nell’ambito del diritto del lavoro.
Cecilia Leccardi
Università Vita-Salute San Raffaele di Milano