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Bollettino ADAPT 9 settembre 2019, n. 31
Corrado Barbagallo, Capitale e lavoro. Disegno storico, Consorzio lombardo fra industriali meccanici e metallurgici, Milano 1925
Agli inizi del secolo scorso, lo storico Barbagallo realizza un’opera per l’allora “Consorzio lombardo fra industriali meccanici e metallurgici”, realtà associativa poi confluita in quella che oggi è Assolombarda. Il consorzio era nato con lo scopo di favorire una logica di reciproco sviluppo, aiuto, e sostegno tra le imprese lombarde, attraverso la condivisione della conoscenza, il dialogo continuo, l’analisi congiunta dei mutamenti politici, economici, sociali. Non quindi in opposizione ai movimenti sindacali, come il polo opposto della rappresentanza dei lavoratori, ma come interlocutore comune per favorire percorsi di crescita che sappiano pensare assieme – come vedremo – capitale e lavoro, impresa e lavoratori, sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori. Una rappresentanza che è quindi dialogo, partecipazione, confronto, finalizzata alla creazione di una sorta di “equilibrio dinamico” tra le parti: un equilibrio che non è il loro banale incontro a metà strada, o la difesa dello status quo, ma piuttosto il tentativo, continuamente rilanciato, di armonizzare e integrare gli interessi delle parti, avendo come comune obiettivo lo sviluppo e la crescita sia dell’impresa, che dei lavoratori. Un’idea di rappresentanza che, come vedremo, è particolarmente importante riguadagnare anche oggi.
Capitale e lavoro. Disegno storico traccia una ricostruzione dell’evoluzione dei rapporti tra capitale e lavoro, passando dall’epoca antica fino ad arrivare ai primi del novecento. È uno studio particolarmente utile per identificare e mettere a fuoco gli elementi che contraddistinguono i momenti di transizione da un’epoca all’altra, letti con la consapevolezza che il lavoro (e la sua organizzazione) non è mai un fatto puramente economico, ma ha sempre una dimensione sociale. Non è quindi una ricostruzione “tecnica” nel senso di puramente economica, ma una riflessione storica che vede nel lavoro un elemento determinante di un sistema più grande, in rapporto dinamico con altri fattori quali, appunto, l’economica, la politica, la demografia.
L’analisi dell’A. inizia da quello che definisce l’”Evo Antico”, e che corrisponde ai primordi della civiltà fino al crollo dell’impero romano. Un primo elemento interessante che emerge da queste pagine è la sottolineatura della completa mancanza di una divisione del lavoro, e quindi di una sostanziale mediocrità dovuta al fatto che ogni uomo provvedeva alla (auto)sopravvivenza secondo le sue capacità. Con l’emergere delle prime civiltà, i primi sviluppi in campo economico sono principalmente da imputare alla grande disponibilità di schiavi. Secondo l’A., lo schiavismo è un fattore determinante questo primo periodo di sviluppo economico, in due modi: permise l’accumulazione di beni e ricchezze che permettevano di guardare al di là della mera sopravvivenza, e allo stesso tempo favorì la diffusione dell’idea per la quale il lavoro quotidiano, faticoso, manuale, è un lavoro da schiavi: è una maledizione, qualcosa da cui sottrarsi e da condannare, a cui appunto è destinato chi è privato di libertà. Secondo l’A., è qui che nasce il primo capitalismo: «Nasce il più antico capitalismo: la crematistica, come denominerà Aristotele, la quale si propone di accumulare ricchezza sotto forma di moneta, che non ha valore per sé stessa, ma ne ha uno infinito come mezzo di scambio; la quale non soddisfa bisogni naturali, ma bisogni artificiali, ossia i bisogni di una civiltà superiore» (p. 17). Sintetizzando, la disponibilità di schiavi garantita dalle costanti guerre e dagli scontri frequenti rende possibile il primo superamento dell’economia domestica e, al fianco della nobiltà guerriera, emerge per la prima volta nella storia la figura del commerciante.
Il lavoro antico, però, non è realizzato solamente da schiavi, ma anche da liberi operai i quali stanno, in relazioni ai primi, come lavoratori qualificati rispetto a lavoratori non qualificati. Con l’evolversi della società e quindi anche dei suoi bisogni, emerge la domanda di beni di qualità, per i quali sono necessarie determinate tecniche ed abilità, non in possesso dei semplici schiavi. Il panorama che si apre è quindi complesso e variegato, e il lavoro assume le forme (anche giuridiche) più disparate. Tra queste, l’A. ricorda che «E vi è ancora qualche cosa che il mondo contemporaneo ha scordalo, ma che il Medioevo e la Rinascenza ben conobbero: il periodo del garzonato — per tutti i mestieri —, durante il quale, non l’apprendista è compensato, ma è la sua famiglia che compensa per lui l’officina» (p. 30). Il passaggio ricorda quindi l’origine dell’apprendistato come precedente il periodo medievale, anche se sarà proprio in quest’ultimo che assumerà un valore fondamentale e nuovo, come vedremo. Con la pax romana aumenta la ricchezza e, cessando le guerre, cessa anche la possibilità di disporre di un gran numero di schiavi. Questi elementi facilitano il tramontare del lavoro tipico del lavoro antico: il numero di schiavi cala, e il loro lavoro è anche meno richiesto, a favore invece dei primi artigiani.
Passando direttamente al basso medioevo, l’A. descrive lo sviluppo delle città, nelle quali si raccolgono i lavoratori. Gli artigiani, per proteggersi e tutelare i propri interessi, si raccolgono in gilde e in confraternite. Si diffondono le botteghe, nelle quali lavora il maestro con i suoi soci e i suoi apprendisti. Qui, ogni lavoratore partecipa, secondo le proprie capacità, all’atto produttivo, conoscendo il senso e lo scopo, spesso poi è lo stesso maestro a vendere ciò che è stato realizzato, senza altri intermediari. È in questa comunanza, in questa partecipazione, in questa assenza di distanze che si ritrova l’elemento caratterizzante il rapporto tra capitale e lavoro nel medio evo, cioè: «L’assenza di separazioni, nette e recise, tra capitalisti, dirigenti (tecnici o amministrativi) e operai: quella separazione, appunto, che noi ogni giorno abbiamo sott’occhio, e di cui, sulla guida dell’esperienza, rileviamo i pregi sovrani ed il pericolo manifesto dei conflitti di classe. Questa recisa distinzione, allora, non esisteva. Il padrone impiantava l’azienda con pochissimo capitale, con l’aiuto dei suoi socii, e insieme la dirigeva, l’amministrava, lavorando fianco a fianco coi garzoni e con gli operai» (p. 54). L’altro elemento su cui si poggia il rapporto tra lavoro e capitale nel medioevo è la corporazione, la gilda. Queste radunavano tutti i lavoratori della stessa arte, per controllare la produzione e il mercato, grazie alla stesura di regolamenti, lo stabilire standard qualitativi, la regolazione dell’apprendistato, dei prezzi oltre che favorire gli scambi. La corporazione, quindi, è il luogo nel quale gli antagonismi sono ricomposti e regolati, è il luogo dell’equilibrio.
Due elementi rompono quest’unità: lo sviluppo dei commerci, anche a lunga distanza, e quindi l’aumento del volume delle esportazioni, e l’accentramento del potere in mano ad alcune corporazioni piuttosto che ad altre. La distanza, quindi, riappare: distanza tra la bottega in cui si produce e il luogo in cui il prodotto è venduto, con il commerciante che si frappone tra l’artigiano e il mercato, distanza che si crea tra le stesse corporazioni, con alcune che diventano sempre più ricche e nelle quali si apre una crepa tra i maestri e i normali lavoratori, e altre che invece sono sempre più povere. Commerciare su lunghe distanze, spesso per mare, non era alla portata di tutti: è così che sorge il nuovo capitalismo medievale, con commercianti che si occupano di comprare il lavoro altrui (della bottega e dei suoi componenti) e rivenderlo su altri mercati. Allo stesso tempo, nella stessa bottega il maestro diventa sempre più un “semplice” datore di lavoro, e soci e apprendisti “normali” lavoratori salariati: sull’abilità tecnica comincia a prevalere la disponibilità di capitale. Le grandi corporazioni diventano quindi il ritrovo di potenti produttori locali, e le regole e le norme che ne fissano l’ingresso diventano sempre più rigide. È quindi nel tardo medioevo, e non con il sorgere della grande fabbrica e del capitalismo industriale, che avviene la prima netta separazione tra chi possiede e fornisce solo capitale, e chi possiede e fornisce solo lavoro.
Un altro elemento che sorge sul finire del tardo medioevo è la divisione del lavoro, anche questa precedente la rivoluzione industriale e la grande fabbrica. Colui che detiene i capitali, il commerciante, compra la materia prima, che poi affida a diversi produttori “famigliari”, che la lavorano direttamente in casa. In seguito, il prodotto semi lavorato viene passato ad altri lavoratori, fino a quando è pronto e venduto, in grandi quantità, dal commerciante. Questa frammentazione è funzionale ad un’economia nella quale fanno il loro ingresso sul mercato quantità di merci sempre maggiori, e per le quali la sola bottega cittadina è ormai insufficiente. «Distributore e regolatore del lavoro è adesso il capitale, la grande impresa che passa le commissioni, fornisce le materie prime, ed è sola a comperare e a vendere i prodotti fabbricati. In queste condizioni, le difese che un tempo gli artigiani avevano trovate nell’organizzazione del mestiere, cadono ad una ad una, ed essi vanno man mano assomigliando ad operai salariati» (p. 65).
Il medioevo ha quindi visto l’emergere delle basi economiche, produttive e politiche che permetteranno il sorgere dell’età moderna. Non solo. Il medioevo è anche l’epoca durante la quale il lavoro non è più qualcosa “da schiavi”, ma torna ad avere una sua, specifica, dignità: anche il lavoro quotidiano, faticoso, manuale, artigiano è un prodotto della libertà dell’uomo: «La fatica, materiale e intellettuale, non porta più seco, con la servitù, il marchio dell’infamia, del disonore. Essa è sacra perchè è la pena e la gioia di gente libera, capace di pensiero, fiera della propria indipendenza, creatura della propria operosità. Sarà questo profondo e universale sentimento a suscitare i prodigi dell’età moderna» (p. 75). Il medioevo ha quindi visto non solo l’emergere di nuove forme di capitalismo, attraverso la divisione del lavoro e il superamento della rappresentanza corporativa, ma ha anche contribuito all’emergere di un’idea di lavoro come espressione della libertà umana, dell’inalienabile dignità dell’essere umano. Un’idea, quest’ultima, spesso dimenticata o ignorata in altri periodi storici, non ultima la stessa età che sorge al tramontare dell’epoca medievale.
L’A. passa quindi ad analizzare l’età moderna, che eredita dalla precedente la prima unificazione degli Stati europei (tranne Italia e Germania), la scoperta dell’America, e i primi esempi di industria capitalistica, nella quale vi è una netta separazione tra capitale e lavoro. Cambiano anche i luoghi della produzione: non più le città, assolute protagoniste del tardo medioevo, ma le vie dei principali commerci. I lavoratori sono sempre più destinati a compiere operazioni semplici e ripetitive, mentre le corporazioni agonizzano, data la distanza ormai incolmabile tra maestri e soci: «Poco a poco, di fatto, il padronato sarà un privilegio ereditario, e gli antichi compagni del maestro, divenuti ormai tali in perpetuo, si denominano suoi serventi (valets, serviteurs), o suoi operai, cioè sono semplicemente dei salariati» (p. 91). La popolazione ovunque cresciuta determina poi la maggior facilità, da parte dei capitalisti, nel reperire manodopera a basso costo. Il lavoro diventa continuo, senza sosta, i lavoratori spesso interscambiabili, quasi lavoratori a giornata: è così che tutto quel patrimonio di cultura e apprendimento legato, ad esempio, all’apprendistato a bottega rischia di scomparire nella prima società capitalistica. Cadendo le corporazioni, cadono anche i monopoli che queste mantenevano, mentre si diffonde la dottrina fisiocratica che influenzò anche lo stesso Smith, per la quale il libero mercato produrrà, naturalmente, risultati ottimali per tutti.
L’A. considera il periodo che va dal 1700 in poi, fino ai primi del 900, nel capitolo dal titolo “L’europa oggi”. L’unificazione dell’Italia, della Germania, della Grecia, e l’indipendenza degli Stati Uniti, favoriscono ulteriormente l’abbattimento di barriere e dogane interne e locali, a beneficio del libero commercio, mentre entra in scena e si diffonde “la macchina”: l’utilizzo cioè di tecnologie e macchinari all’interno del contesto industriale, automatizzando sempre più il lavoro. Ma è proprio nell’organizzazione del lavoro e della produzione resa possibile dalla grande industria moderna che l’A. rintraccia l’elemento caratterizzante questo periodo: «Ma la causa, d’ordine economico, maggiore di ogni altra, del profondo rivolgimento, nella organizzazione del lavoro, che ha avuto, come sua ripercussione, un rivolgimento, non meno radicale, dell’aspetto della società, è stata la constatazione, effettiva e positiva, degli effetti, tecnicamente ed economicamente, prodigiosi della grande industria meccanica, e che si possono riassumere nei seguenti: economia di tempo, di fatica, di mano d’opera, di spese generali ; quantità enormemente maggiore di prodotti; riduzione considerevole del prezzo dei medesimi: benefici, come si scorge a una semplice enunciazione, che non vanno solo a profitto degli industriali, ma si ripercotono sui consumatori e, come vedremo più innanzi, sugli operai, in quanto consumatori e in quanto operai, e che hanno sospinto la grande industria meccanica a conquistare il mondo, e persuaso questo, dopo le prime riluttanze, a lasciarsene conquistare» (p. 122). La grande novità dell’industria è costituita dai benefici che porta a tutte le parti, e anche agli stessi operai, i quali diventano, con il XX secolo, consumatori. La grande industria è costosa, perché costosi sono i macchinari che vi sono impiegati: è solo il capitalista, o meglio, le società di capitali che possono permettersi di gestirla e mantenerla in funzione. Ma l’orizzonte non è abitato solamente da grandi industrie: rimane vivo in questo periodo il lavoro artigiano, necessario per la produzione di determinati beni, così come il lavoro a domicilio e a cottimo, in determinate zone e per specifici prodotti. È quindi un errore vedere nel divenire storico un progresso lineare e, in ogni epoca, un insieme di fattori che nascono e muoiono con essa. I rapporti tra capitale e lavoro, secondo l’A., sono quindi giunti a un punto, con la diffusione del capitalismo industriale, nel quale la distanza tra di essi è massima: il capitale è gestito da società, da azionisti, mentre gli operai corrono il duplice rischio di essere sostituiti dalle macchine o di vivere un’esperienza lavorativa alienante, ai limiti della sopportazione umana. È possibile trovare un nuovo equilibrio – storico – tra questi due elementi? Se l’impresa ha perso il suo volto – non c’è più un padrone, ma un’assemblea di soci – e se il lavoratore rischia di perdere il suo, di volto, tra processi e macchinari, come ricomporre quest’interessi non solo contrastanti, ma anche frammentati?
Come ricordato in apertura, i conflitti che esistono tra capitale e lavoro sono mediati dal fenomeno della rappresentanza. Secondo l’A., quest’ultima però si limita – o almeno così faceva nei primi decenni del secolo scorso – alla richiesta di incrementi salariali, piuttosto che ad una diversa partecipazione dei lavoratori al processo produttivo: «La grande massa non guarda che alle migliori condizioni di lavoro e di guadagno di oggi, rispetto a ieri, di domani rispetto ad oggi, e si disinteressa affatto di studiare e di apprendere il difficile congegno della macchina industriale per mettersi in condizione di poterla un giorno manovrare.» (p. 143). L’A. sottolinea come, nonostante i rapporti tra capitale e lavoro siano spesso più conflittuali che nel passato, è innegabile che il capitalismo industriale sia il principale fattore che negli ultimi secoli ha determinato un generale innalzamento delle condizioni di vita dei lavoratori. Punto centrale, quindi, non è parteggiare per una delle due parti, per il capitale contro il lavoro, o viceversa, ma saperli mettere in dialogo e leggerli assieme: questo il compito delle relazioni industriali. Se all’inizio dell’opera l’A. aveva ricordato la dimensione sociale dell’esperienza del lavoro, la stessa dimensione riemerge prepotentemente nell’analisi della contemporaneità: è nel dialogo continuo tra le due dimensioni che danno il titolo a quest’opera che è possibile contribuire alla costruzione di una società più giusta ed equa, nel quale i diversi elementi, pur nella distanza che rimane, si integrano vicendevolmente piuttosto che scontrarsi senza risultato. All’interno di questo processo di dialogo e integrazione un ruolo fondamentale è svolto dalla rappresentanza, la quale è chiamata non tanto ad aggiungersi ai due elementi, al capitale e al lavoro, tentando di avvicinarli attraverso un movimento che rimane però esterno – ed estraneo – a questi: è invece chiamata a viverli, dall’interno, nella dimensione sociale che è propria di ogni lavoro, dando voce alle esigenze, ai bisogni ai desideri di lavoratori e imprenditori: non contrapponendoli, ma orientandoli ad un fine e ad uno scopo comune – la crescita dell’impresa, l’apprendimento che favorisce la partecipazione dei lavoratori e la loro occupabilità, lo sviluppo comune e congiunto di questi elementi, così spesso letti e pensati come inconciliabili, anche dallo stesso sistema delle relazioni industriali.
Non è quindi, come a volte oggi si suggerisce, eliminando la rappresentanza che i corpi intermedi che si ottiene sviluppo e crescita: o meglio, si possono ottenere questi risultati, ma spezzando l’equilibrio tra capitale e lavoro a favore di uno o dell’altro. Il compito che invece Barbagallo affida al sistema delle relazioni industriale e quello del faticoso, ed inesauribile, tentativo, dell’equilibrio e del reciproco vantaggio. Un compito che deve essere riscoperto dalla stessa rappresentanza, e mai dimenticato dai decisori politici.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo