ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 16 settembre 2019, n. 32
Karl Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (1932), tr. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844 di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004
I “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, detti anche “Manoscritti di Parigi”, furono scritti tra marzo e settembre di quell’anno, e pubblicati postumi nel 1932. In queste pagine il giovane Marx, maturata la consapevolezza del suo distacco da Hegel, si approccia per la prima volta all’economia classica di Smith e Ricardo e, dopo averne criticato i presupposti, inizia un lavoro costruttivo nel campo della filosofia, della storia, della politica e dell’economia. L’opera si articola in tre manoscritti: il primo concerne l’economia classica borghese e i suoi temi principali; il secondo si occupa della proprietà privata e del comunismo, che viene per la prima volta indicato come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; il terzo tratta della divisione del lavoro e della filosofia di Hegel in generale.
Sono proprio le pagine dei “Manoscritti” a rendere celebre e fortunato il concetto di “alienazione”. Prendendo le distanze dall’interpretazione hegeliana quale mera oggettivazione della coscienza nella realtà, Marx giunge ad affermare che l’alienazione non è solo un concetto filosofico, ma un fatto economico da cui dipendono concretamente le possibilità di esistenza del lavoratore. L’autore rivendica per sé il merito di partire da «un fatto presente dell’economia politica» (p. 68), ovvero la «svalorizzazione del mondo umano che cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose» (p. 68), per cui l’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che crea. Infatti, «il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.» (p. 68)
L’alienazione/oggettivazione nei termini dell’economia politica classica (da cui Marx prende polemicamente le distanze) non è solo una privazione dell’operaio dell’oggetto del suo lavoro, ma una schiavitù più profonda e subdola. Questa non sarebbe da intendersi solo dal lato della produzione, ma anche la «stessa attività produttiva.» (p. 71) Domanda ironicamente Marx: «come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso nell’atto della produzione?» (p. 71) Se il prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva.
E quindi, in che cosa consiste l’alienazione, cioè l’estraneazione da sé subita dall’operaio nell’attività lavorativa? Marx identifica tre dimensioni del lavoro estraniato: l’alienazione dal prodotto del lavoro, dall’atto di produzione e da se stesso.
Anzitutto, l’operaio subisce un’estraneazione dal prodotto del suo lavoro. «L’alienazione dell’operaio del suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendentemente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.» (p. 69) Dunque, l’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui.
L’alienazione dal lavoro consiste invece «nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito.» (p. 71) In aperto contrasto con quanto sostenuto da Hegel attraverso la figura del servo/padrone, Marx ritiene che l’operaio possa sentirsi in armonia con sé stesso e autenticamente libero solo al di fuori del contesto lavorativo, mentre al lavoro si sentirebbe «fuori di sé.» (p. 71) Ne consegue che il lavoro – inteso come «lavoro forzato» (p. 71) – sia solo come un’attività atta all’appagamento di un bisogno, e non un’opportunità di realizzazione personale.
Infine, «il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione.» (pp. 71-72). Così come il lavoro non appartiene all’operaio, ma al capitalista, allo stesso modo nel lavoro egli non appartiene a se stesso, ma ad un altro. «La produzione produce l’uomo non soltanto come una merce, la merce umana, l’uomo in funzione di merce; ma lo produce, corrispondentemente a questa funzione, come un essere tanto spiritualmente che fisicamente disumanizzato.» (p. 86). In questo modo si compie l’estraneazione dell’operaio da se stesso.
Prodotto tangibile del lavoro estraniato – secondo Marx – è la proprietà privata. A tal proposito, l’autore denuncia: «L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi. […] L’economia politica non ci dà nessuna spiegazione sul fondamento della divisione di capitale e lavoro, di capitale e terra.» (pp. 66-67) Ne segue che l’emancipazione della società dalla proprietà privata si dovrà esprimere nella forma politica dell’emancipazione degli operai.
Infine, i “Manoscritti” presentano anche una prima definizione teoreticamente fondata del comunismo, nei termini della «soppressione positiva della proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, e dunque soppressione positiva di ogni estraneazione, ritorno dell’uomo, della religione, della famiglia, dello stato, ecc., alla sua esistenza umana, cioè sociale.» (p. 108)
Da un punto di vista epistemologico, Marx ha compiuto una vera e propria rivoluzione, impostando la sua riflessione a partire dalla realtà storica a lui contemporanea. Con il pensiero di Marx si sono confrontati numerosi autori successivi, per lo più in termini critici (quali Kelsen, Popper e Weber); il comunismo ha ispirato eventi storici di portata epocale e l’analisi marxista del capitalismo risulta oggi sorprendentemente attuale.
Prima di valutare l’influenza del pensiero marxista sui secoli a venire, occorre fare una puntualizzazione a livello terminologico. Il termine “comunismo”, nato in Francia nel 1840, ha acquisito il significato corrente solo nel 1918, quando Lenin, dopo aver preso il potere in quello che era l’impero russo, ha chiamato il suo partito – appunto – “comunista”. Fino alla pubblicazione del “Manifesto del Partito Comunista” nel 1848, i termini “socialismo” e “comunismo” erano considerati intercambiabili. Marx ed Engels operano la suddivisione tra “socialismo utopistico” e “socialismo scientifico”, che essi chiamano anche “comunismo”, e che sarà la base ideologica – spesso fraintesa o sorpassata – delle future dittature comuniste.
La lotta di classe prevista da Marx per sovvertire l’ordine socio-politico borghese, che prevedeva anche una fase temporanea detta “dittatura del proletariato”, è stata intesa a partire da Lenin nel più drastico dei modi: un potere non limitato da nessuna legge, che si basa sulla coercizione. Questo ha giustificato non solo l’espropriazione, ma anche l’eliminazione fisica di tutti coloro che erano ritenuti incompatibili con l’edificazione del comunismo, dagli esponenti della borghesia fino ai contadini proprietari, i kulaki. Questo sterminio ha raggiunto il suo apice con Stalin, e successivamente in Asia con Mao Tse-Tung, e Pol Pot. Ovunque i comunisti abbiano preso il governo, la proprietà dei mezzi di produzione e dei terreni agricoli, non è stata trasferita – come avrebbe previsto la dottrina marxista – nelle mani degli operai e dei contadini, bensì in quelle dello Stato. I regimi comunisti, quando non sono crollati per il fallimento economico o nel tentativo di riformarli in senso democratico (ed è il caso dell’Unione Sovietica) si sono atrofizzati (Cuba e la Corea del Nord sono due esempi dell’evidente incapacità di evoluzione insita nelle dittature comuniste).
Nella ricerca delle cause, e nel tentativo di prevedere le conseguenze della corrente crisi economica, l’analisi scientifica di Marx rivela il suo contenuto profetico, che conferma il marxismo quale insuperato strumento di indagine e di trasformazione della società capitalistica. All’interno del pensiero di Marx, il concetto di “crisi” ha un ruolo fondamentale. Secondo Marx, infatti, si verificherebbero ciclicamente delle crisi di sovrapproduzione, che causerebbero il blocco dei mercati. Tali crisi non sarebbero però solo di natura economica ma, nel contempo, anche valoriali, investendo la qualità della vita delle persone e il modello di sviluppo della loro esistenza. Il marxismo può essere una bussola per orientarsi tra le turbolenze economiche e sociali del XXI secolo anzitutto per due ragioni: per aver evidenziato l’inseparabilità dell’economia dalla politica, e per aver sottolineato il legame profondo che sussiste tra il mercato e la divisione classista della società.
Dopo il crollo del regime comunista in Urss, nulla sembrava più opporsi al trionfo del capitalismo multinazionale e della democrazia e dei diritti umani plasmati su di esso. Il trionfo del capitalismo si è realizzato con la piena formazione del mercato mondiale, ma non ha cancellato l’altra faccia, ineliminabile, del capitalismo stesso, cioè la guerra, la crisi e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma se la crisi ha un segno di classe e se gli scontri fra le potenze sono destinati ad aggravarsi a mano a mano che la crisi si approfondisce e si estende, è tuttavia incontestabile un dato reale che mai in precedenza era esistito: i salariati nel mondo sono oggi due miliardi, la classe di riferimento di Marx non è mai stata così numerosa.
ADAPT Junior Fellow