Periodo di prova: alcune riflessioni sul DDL Lavoro

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Bollettino speciale ADAPT 18 ottobre 2024, n. 5
 
Con l’art. 13, il c.d. “DDL Lavoro” (A.S. 1264) interviene con la finalità di chiarire il regime in materia di periodo di prova con riferimento ai contratti a tempo determinato. Si tratta di un intervento di chiarimento e maggiore dettaglio che si è reso necessario all’indomani del recepimento nel contesto interno della Direttiva relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea (2019/1152, approvata il 20 giugno 2019). In particolare, l’art. 8, comma 2 della Direttiva prevede che “nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri provvedono affinché la durata di tale periodo di prova sia proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego”. Il considerando n. 28 specifica ulteriormente tale previsione, sancendo che la proporzionalità del periodo di prova dovrebbe essere garantita in particolare per i contratti di durata inferiore a 12 mesi.
 
In verità, la trasposizione all’interno della legislazione nazionale delle disposizioni eurounitarie menzionate è già stata attuata – come la gran parte delle disposizioni della Direttiva trasparenza – con il d.lgs. n. 104/2022, il cui art. 7 comma 2 recita: “Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego.  In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova”.

Attraverso il DDL Lavoro, il legislatore intende fornire maggiore concretezza al concetto di “proporzionalità” del periodo di prova rispetto alla durata del contratto a termine, individuando limiti minimi e massimi di natura cogente per quanto concerne lo stesso. In particolare, l’art. 13 del DDL interviene sul testo della disposizione in materia contenuta nel d.lgs. n. 104/2022, prevedendo che alla stessa siano aggiunti i seguenti periodi: “Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi” (cfr. DDL A.S. 1264).
 
L’articolo 13 qui menzionato è una delle disposizioni che non hanno subito modifiche nei vari passaggi parlamentari che hanno interessato il testo legislativo. Di conseguenza, possono ritenersi ancora attuali i commenti che le parti sociali hanno espresso in merito al testo nel corso delle audizioni parlamentari svoltesi ad inizio 2024 in Commissione Lavoro (per una visione complessiva di tali commenti, si veda G. Benincasa (a cura di), Il disegno di legge collegato lavoro (1532-bis). La prospettiva delle parti sociali, Materiali di discussione, n. 8/2024, ADAPT University Press).

Tra questi, è possibile notare la richiesta di esplicitare che le disposizioni legislative menzionate possano essere derogate unicamente da contratti collettivi ex art. 51, d.lgs. n. 81/2015 (Confindustria, Confcommercio), oppure la critica all’individuazione di un periodo di prova sulla base di un criterio matematico, identico per tutti i lavoratori assunti a termine e che dunque non tiene conto dei loro differenti profili professionali e livelli di inquadramento (Confcommercio, Confimi Industria, Conflavoro PMI).

Tuttavia, l’analisi delle audizioni parlamentari consente altresì di portare alla luce uno degli aspetti maggiormente controversi della nuova previsione sul periodo di prova.
 
Come evidenziato dal testo dell’articolo, la contrattazione collettiva può derogare al limite legale di un giorno di prova ogni 15 giorni di effettiva prestazione solamente nel caso in cui le sue soluzioni siano “più favorevoli” rispetto a quanto previsto dal DDL. Medesime rilevazioni, peraltro, devono essere compiute relativamente al ruolo della contrattazione individuale, che, sebbene non esplicitamente menzionata all’interno dell’articolo, ha di certo la facoltà di derogare anche a tale disposizione legislativa in senso più favorevole nei confronti del lavoratore.

Tuttavia, il concetto di “disposizione più favorevole” non è di facile interpretazione: è più favorevole un periodo di prova più lungo, che quindi consenta sia al lavoratore che all’azienda una valutazione più approfondita dell’aderenza del profilo professionale del lavoratore alle mansioni che lo stesso dovrà svolgere, oppure un periodo di prova più breve, a cui consegue una più rapida “stabilizzazione” del lavoratore all’interno del contesto produttivo di riferimento, ma che al contempo limita il periodo in cui il lavoratore può dimostrare la propria attitudine professionale?
 

In questo senso, deve essere considerato che il principio cardine da seguire per l’interpretazione di tutte le disposizioni lavoristiche è quello del favor praestatoris, che impone di favorire quell’interpretazione che accorda una maggiore tutela al prestatore d’opera (il lavoratore) in quanto contraente più debole del rapporto di lavoro: tuttavia, anche considerando questo principio, la disposizione rimane comunque ambigua, come sottolineato anche dal Servizio Studi del Senato della Repubblica nel dossier relativo al DDL (p. 40). In questo senso, la giurisprudenza relativa al rispetto del periodo di prova fissato dalla contrattazione collettiva, dimostra come il principio venga declinato tradizionalmente nel senso della estensione minore della prova come favorevole al lavoratore, ma ammetta altresì che deroghe a tale principio possono essere accolte in sede individuale se si dimostra un interesse del lavoratore alla estensione maggiorata (cfr. Cass. Lav. 26 maggio 2020, n. 9789).
 
Deve essere considerato, peraltro, che le difficoltà interpretative connesse a tale disposizione contribuiscono anche a rendere meno chiaro il secondo periodo dell’art. 13 del DDL, il quale individua un range parzialmente differente dal primo relativamente ai limiti minimi e massimi per la durata del periodo di prova.

Prendendo ad esempio un contratto della durata di sei mesi, si nota infatti che, secondo il primo periodo dell’articolo 13, il limite massimo per il periodo di prova sarebbe di circa 12 giorni (1 giorno ogni 15 = 2 giorni per ogni mese*6 mesi), mentre il secondo periodo ne consentirebbe l’estensione fino a 15. Allo stesso modo, nel caso di un contratto della durata di 12 mesi, il limite massimo del periodo di prova sarebbe 24 giorni secondo il primo periodo dell’articolo e di 30 giorni ai sensi del secondo. Questa parziale discrepanza, come sottolineato dalla CGIL in fase di audizione in Commissione Lavoro, lascerebbe margini di interpretazione peggiorativi rispetto all’ipotesi del primo periodo, con i già richiamati margini di incertezza rispetto alla possibilità di un intervento derogatorio al riguardo da parte della contrattazione collettiva.
 
Occorre, poi, sottolineare come la seconda parte della disposizione si riferisca – probabilmente memore del già richiamato considerando – ai soli contratti a tempo determinato di durata inferiore a 12 mesi, con la conseguenza di creare due regimi parzialmente diversi e di non facile coordinamento: uno con computo legale della prova e disciplina degli spazi di agibilità per le modifiche ad opera della contrattazione collettiva entro i 12 mesi; un altro, per i contratti più lunghi di 12 mesi, cui sembrerebbe applicabile solamente il computo legale, in assenza di limiti di riferimento per la contrattazione.
 
Dall’analisi dei cinque contratti collettivi nazionali maggiormente applicati nel paese (dati INPS-CNEL) si nota peraltro come solamente il CCNL per i dipendenti da aziende del settore Turismo (Federalberghi, Faita, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil) includa alcune disposizioni relative al periodo di prova del lavoratore a termine (peraltro, solo quelli attivi presso le aziende alberghiere e i complessi turistico-ricettivi dell’aria aperta) le quali individuano un limite massimo per la durata del periodo di prova pari a 10 giorni. Gli altri CCNL analizzati (settori Metalmeccanico industria, Metalmeccanico artigiani, Commercio, Logistica e Trasporti), invece, sembrano assimilare la disciplina del periodo di prova dei lavoratori a termine a quella per i lavoratori assunti a tempo indeterminato.

È ragionevole pronosticare che, nel caso in cui l’art. 13 del DDL Lavoro fosse approvato con l’attuale formulazione, le parti sociali si attiverebbero al fine di disciplinare la tematica del periodo di prova per i lavoratori a termine all’interno della contrattazione collettiva, anche soltanto in ottica semplificatoria rispetto alle disposizioni legislative.
 

Diletta Porcheddu

Ricercatrice ADAPT Senior Fellow

@DPorcheddu

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