Il dado è tratto, e il dibattito è aperto. Da qualche giorno numerosi osservatori hanno iniziato a confrontarsi sullo scenario che si va delineando dopo la rottura delle trattative tra Confindustria e sindacati sul modello di rappresentanza e sui rinnovi contrattuali. Lo scenario è quello di un massiccio intervento statale nel campo delle relazioni industriali da realizzarsi mediante una legge che affronti tre questione fondamentali: la verifica degli iscritti e la misura della rappresentanza dei soggetti sindacali; una più stringente regolazione del diritto di sciopero, dopo i primi provvedimenti assunti in seguito alla vicenda Colosseo e, non certo ultimo, attraverso l’introduzione di un salario minimo per legge. Già abbiamo avuto modo di ricordare (v. Cogestire la via buona, in Avvenire, 8 ottobre 2015) come un eventuale intromissione del legislatore nella regolazione dei metodi e dei contenuti dei rapporti tra le parti genererebbe un profondo snaturamento della sostanza delle relazioni industriali.
Qui vorremmo concentrarci sul fatto che ormai si tenda a dare per scontato quello che ormai appare essere il grande trade-off, la scelta alternativa fra crescita dell’occupazione o l’aumento dei salari. Una teoria semplice: in un momento di ripresa economica, e quindi in un clima di iniziale e spesso timidi risveglio degli investimenti, gli imprenditori, ma anche il sindacato e il legislatore sono obbligati a una scelta. Si sostiene, in altri termini, che se le (poche) risorse disponibili andranno ad aumentare i salari dei lavoratori già assunti non vi sarà poi spazio per nuovi posti di lavoro, specie per i giovani, in quanto un aumento della occupazione necessita di un sacrificio sul fronte salariale. Non vi è spazio per tutti nella divisione della torta. Una tesi suggestiva che, in un momento in cui la disoccupazione italiana è all’11,9%, non può che portare a prediligere un contenimento della crescita salariale a vantaggio di maggior occupazione. Ma essendo l’economia tutto fuorché una scienza esatta è utile indagare su quale modello di impresa si fondi questo aut-aut.
In ultimo questo sistema accetta come naturale una distanza tra lavoratori e impresa, come se questi fossero unicamente una delle variabili economiche insieme agli altri fattori produttivi e che quindi il loro “costo”, ossia il salario, debba considerarsi sicuramente una variabile dipendente, ma all’interno di una stretta maglia di equilibrio tra domanda e offerta. Lungi dal non essere d’accordo con la dipendenza del fattore salario questo modello, ci appare però quanto meno antiquato, legato a una concezione dell’impresa tipica del secolo scorso, l’idea di affidare a interventi puramente paternalistici l’eventuale spinta dell’imprenditore a condividere il frutto del lavoro con i suoi collaboratori. Quasi che il welfare aziendale, più o meno generoso, potesse da solo svolgere la duplice funzione di tutela dei redditi reali del lavoratore (al posto degli aumenti salariali) e di “remunerazione” del coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa (al di fuori di una contrattazione con il sindacato).
Ma esiste unicamente la relazione lavoro-salario-costo o all’interno della dinamica di impresa emergono altri fattori? È proprio qui che il dibattito attuale appare miope. Oltre a considerare il salario come l’unico “costo” da sostenere, senza valutare che i costi maggiori nel nostro Paese sono altri – dal cuneo fiscale, alla carenza di competenze, ai costi della burocrazia – nessuno parla mai di profitti e di rischio di impresa, come se questi elementi fossero appannaggio del datore di lavoro e non avessero alcun legame con le dinamiche dei lavoratori. In una moderna idea di impresa, invece, la partecipazione dei lavoratori alla gestione della stessa porta a superare questa concezione, aggiungendo molti fattori da tenere in considerazione. Perché altrimenti, la condivisibile richiesta del sistema delle imprese di legare i salari alla produttività finisce con il gettare sui lavoratori parte del rischio di impresa senza alcuna reale contropartita.
Il salario non è unicamente un costo, ma può essere considerato un investimento se frutto di una contrattazione partecipativa con i lavoratori che porti a considerarlo un valore variabile a seconda dei risultati dell’impresa e della produttività. In questo modo si avrebbero al contempo maggiori profitti, dati dalla spinta dei lavoratori ad una maggior produttività, e spazio per nuove assunzioni, se i risultati dell’impresa lo consentono. Quindi: variabile dipendente, sì, ma all’interno di un sistema di condivisione di obiettivi comuni tra lavoratori e impresa.
È chiaro che la responsabilità di questa situazione è comune poiché spesso larga parte del sindacato non è disposta a rinegoziare quei meccanismi di definizione del salario, come il legame con l’indice Ipca (in uso finora, basato sulla crescita prevista dell’inflazione, depurata dalle oscillazioni di prezzo dei carburanti), che appaiono oggi anch’essi obsoleti. Occorre però fare uno sforzo comune per innovare il modello di impresa italiano, non solo per una questione culturale ma per le importanti conseguenze economiche che questo comporta. In un panorama di salari stagnanti, infatti, non guarda al futuro un modello che pensa di assumere nuovi lavoratori condannandoli a percepire redditi tali da non consentire quella reale ripresa dei consumi interni, senza la quale le imprese stesse non avrebbero l’ossigeno necessario per sopravvivere. Per non parlare poi della necessità di modelli partecipativi in uno scenario industriale che avrà sempre più al centro la professionalità, le competenze e le responsabilità dei singoli lavoratori, senza le quali il genio d’impresa non può sprigionarsi al meglio. Un cane che si morde la coda quindi, un circolo vizioso dal quale non potremo mai uscire senza una nuova visione.
Visione che non può certo essere calata dall’alto, attraverso un modello, come quello del salario minimo legale verso il quale si va orientando il governo, che impoverisce il sistema della rappresentanza sindacale con il rischio di una ulteriore diminuzione dei salari, decisamente negativa per i consumi.
Vero è, però, che l’iniziativa governativa va a colmare, in maniera tanto sbagliata quanto comprensibile, un vuoto e un ritardo che sono responsabilità certo del sindacato (o meglio: di buona parte di esso) ma non di meno della nostra classe imprenditoriale, fortemente restia a immaginare nuovi rapporti con i propri collaboratori. In questo scenario non mancano certo esempi positivi, basti pensare alle strade di partecipazione ipotizzate dal recente accordo per il rinnovo del contratto nel settore chimico.
Gli strumenti, anche legislativi, per avviare nel nostro Paese una svolta partecipativa ci sono. Occorre dimostrare la volontà di avviare la svolta, mettendo nei fatti, e non solo a parole, la persona al centro dell’idea di impresa.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Avvenire, 17 ottobre 2015.