Politically (in)correct – Abolizione del RdC:  non vi è “cittadinanza” senza “inclusione”

Bollettino ADAPT 28 novembre 2022, n. 41

 

Ha ragione Francesco Seghezzi quando, nell’intervista a il Foglio, in merito alle misure di revisione del reddito di cittadinanza proposte dal governo Meloni ha osservato: “Fornire in otto mesi, a circa 400 mila persone, quei corsi di formazione e di avviamento al lavoro che non si è riusciti ad offrire loro in quattro anni”. E ha aggiunto: “Diciamo che è una riforma fatta in modo precipitoso, e dai chiari tratti demagogici”. In sostanza – aggiungo io – è un ulteriore spot di quelli che Giorgia Meloni ha compiuto a fini interni, mentre era impegnata ad accreditarsi sul piano internazionale. A pensarci bene, infatti, la narrazione del presidente del Consiglio non ha come punto di riferimento la modifica della normativa come previsto nel ddl di bilancio, in base alla quale, dal 1° gennaio 2023 alle persone tra 18 e 59 anni (abili al lavoro ma che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età) è riconosciuto il reddito nel limite massimo di 7/8 mensilità invece delle attuali 18 rinnovabili. È inoltre previsto un periodo di almeno sei mesi di partecipazione a un corso di formazione o riqualificazione professionale. In mancanza, decade il beneficio del reddito come nel caso in cui si rifiuti la prima offerta congrua. Pura propaganda.

 

Come sottolinea Seghezzi nell’intervista citata: “C’è l’illusione che basti davvero organizzare per queste persone, che spesso hanno gravissimi problemi sul piano personale, economiche e famigliare, un corso di formazione di cinque o sei mesi, credendo che tanto basti a renderle pronte ad entrare nel mercato del lavoro. Ma quand’anche fosse possibile – prosegue Seghezzi – davvero saremmo in grado da gennaio di offrire questi percorsi formativi a quasi mezzo milione di persone? Con i centri per l’impiego ancora in fase di ristrutturazione?’’. Ma Il messaggio che Meloni ha voluto mandare si veda il suo intervento all’Assemblea della Confartigianato immediatamente successivo alla conferenza stampa di presentazione della manovra – è di un altro tono soprattutto politico: quello della abolizione del RdC a partire dal 2024.  Sorge il dubbio che si tratti di una ritorsione di natura prettamente ideologica come fu, in senso opposto, l’istituzione (Titolo I del dl n. 4/2019) di questa misura. Non è mai una buona azione gettare via il bambino insieme con l’acqua sporca. È vero che nella bacinella del RdC di acqua sporca ce ne è tanta, mentre la creatura è molto piccola (magari settimina). Ma è pur vero che il comma 1 dell’articolo 38 Cost. è molto chiaro: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”.

 

Quali sono i gravi difetti del RdC? Alcuni sono riconosciuti anche dai suoi stessi promotori. È stato un errore politico, culturale e pratico pretendere di tenere insieme un intervento di inclusione sociale con uno strumento, pressoché esclusivo, di politica attiva del lavoro. Si sapeva fin dall’inizio che i centri per l’impiego non sarebbero stati in grado di proporre ben tre occasioni di lavoro nell’arco di 18 mesi – attenzione a questo passaggio – non solo ad un disoccupato (uscito dal mercato del lavoro dopo aver compiuto delle esperienze professionali) ma ad un inoccupato non occupabile in quanto privo delle condizioni di base (scolarizzazione, alfabetizzazione informatica, situazioni famigliari e di salute, espedienti,  ecc.) per un programma formativo (peraltro solo teorico, visto che era ed è problematico realizzarlo). Ma non c’erano solo questi limiti strutturali. Anche le scelte gestionali immediate erano visibilmente inadeguate: all’Inps fu affidata l’erogazione delle prestazioni con l’ordine di pagare il più presto possibile senza curarsi troppo dei requisiti di quanti presentavano domanda; le politiche attive coinvolgevano l’Anpal la cui gestione fu affidata ad un immigrato proveniente da una Università del profondo Sud degli Usa che avrebbe dovuto servirsi dei c.d. navigator, tanti bravi ragazzi selezionati e onusti di titoli accademici, mandati allo sbaraglio in una missione impossibile; gli stessi che – senza colpe – hanno pagato per quel pasticcio in cui sono stati coinvolti.

 

L’altro errore capitale fu quello che viene attribuito a coloro che sono affetti della sindrome della “scopa nuova”: la pretesa di spazzare meglio di quella vecchia, nel nostro caso il reddito di inclusione (ReI) lasciato in eredità dal governo Gentiloni, poco prima di fare le valige (il Rei entrò in vigore il 1-1-2018, poche settimane prima delle elezioni del marzo 2018). Come risultò da un esame obiettivo il ReI non fu, nonostante tutto, un fallimento. Il suo vero limite lo mette in evidenza, nel suo saggio “Le riforme dimezzate”, Marco Leonardi, consigliere economico di Palazzo Chigi nella XVII Legislatura. Il ReI – una misura più organica e meno pasticciata del RdC e rivolta solo al contrasto della povertà – arrivò troppo tardi e con scarse risorse a disposizione. “Nel gennaio 2017, al passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni, la legge delega sulla povertà era ancora da discutere al Senato, senza nessuna certezza sui tempi, tant’è che si rischiava di andare alle elezioni senza averne terminato l’iter. Fu trovato – prosegue Leonardi – non senza qualche difficoltà un accordo che prevedeva l’impegno del governo a scrivere molto rapidamente i decreti attuativi in cambio della rinuncia, da parte del Senato, di non presentare emendamenti al disegno di legge delega’’. In pratica il 1° dicembre del 2017 il ReI divenne operativo (ma entrava in vigore il 1° gennaio successivo), ma non fu organizzata una pubblicità efficace e, soprattutto, le elezioni erano ormai a pochi mesi. Ed era già noto da tempo il tema (RdC) su cui il M5S avrebbe svolto la campagna elettorale.

 

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SCHEDA

 

Il Reddito di Inclusione

In applicazione  del dlgs n. 147/2017 dal 1° gennaio 2018 è stato istituito il Reddito di inclusione (ReI) quale misura unica nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, condizionata alla valutazione della condizione economica attraverso l’ISEE. Il ReI ha sostituito il SIA (Sostegno per l’inclusione attiva) e l’ASDI (Assegno di disoccupazione).

Il ReI si componeva di due parti:

1. un beneficio economico, su dodici mensilità, con un importo variabile a secondo della numerosità del nucleo familiare (da circa 187 a circa 539 euro per nuclei familiari con 6 o più componenti). Il beneficio economico era erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta ReI);

2. un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia dei servizi sociali del Comune;

3. per l’accesso al ReI erano previsti requisiti economici, di residenza/soggiorno e di compatibilità (i membri del nucleo familiare non devono essere percettori di prestazioni di disoccupazione).

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Come si vede dalla scheda il Rei era prevalentemente finalizzato all’inclusione sociale e veniva gestito a livello locale in modo evidentemente più flessibile della gestione centralistica che ha caratterizzato il RdC. Meloni ha una grande occasione che potrebbe consentire al governo di mettere in difficoltà l’opposizione di sinistra che è tentata di seguire il M5S nella difesa a oltranza del RdC. Per realizzare un’operazione “condivisa” l’esecutivo dovrebbe l’impostazione del Rei e dare priorità e risorse ad un’attività di inclusione sociale, in grado di assicurare agli emarginati in condizione di povertà non solo materiale (si pensi al livello di scolarizzazione) un livello di “cittadinanza” adeguata che è la premessa indispensabile di una possibile occupabilità. Per quanto riguarda le politiche attive, esse vanno rivolte in primo luogo ad assicurare una maggiore mobilità del mercato del lavoro per superare il mismatch esistente tra domanda e offerta del lavoro, attraverso il potenziamento dell’assegno di ricollocazione.

 

Sono state avanzate diverse proposte di revisione in tal senso; in un Rapporto della Corte dei Conti, ad esempio, sono state suggerite modifiche in grado di: a) favorire maggiormente l’inclusione di famiglie numerose e con disabili, penalizzate in termini relativi, rispetto all’ampio numero di nuclei monocomponente; b) tener conto del fatto che gli indicatori evidenziano tra i tassi di povertà più elevati quelli riguardanti lavoratori che operano in Italia ma senza cittadinanza. Infatti, l’incidenza della povertà si attesta su valori molto elevati in particolare tra le famiglie di soli stranieri o con componenti stranieri (in condizione di povertà assoluta con percentuali 6 volte superiori a quella degli italiani in condizione di povertà assoluta (percentuale 6 volte superiore a quella degli italiani); c) accrescere ulteriormente il coinvolgimento dei servizi sociali dei Comuni, eventualmente rinforzandoli in termini di capacità gestionali e competenze, e delle organizzazioni del Terzo settore, che, nell’avvio del RdC furono lasciate ai margini del processo in nome di una cultura del sospetto di marca statalista e a dispetto del grande ruolo che esse esercitano e dai fondamentali servizi di prossimità che erogano.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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