Bollettino ADAPT 18 settembre 2023, n. 31
Il XXII Rapporto dell’INPS, presentato a Roma nei giorni scorsi, ha portato una serie di elementi nuovi nel dibattito sull’introduzione del salario minimo. In verità, l’argomento non viene affrontato direttamente, ma attraverso una valutazione di quello che può essere definito – secondo un particolare approccio ai dati sull’occupazione, le diverse forme contrattuali e retributive – lavoro povero (WP), partendo da un assunto che è poi lo stesso ribadito da Carlo Bonomi nella sua relazione all’Assemblea dell’Associazione di Viale dell’Astronomia: “Confindustria resta convinta che la mera introduzione di un salario minimo legale, non accompagnata da un insieme di misure volte a valorizzare la rappresentanza, non risolverebbe né la grande questione del lavoro povero, né la piaga del dumping contrattuale, né darebbe maggior forza alla contrattazione collettiva”. Eppure, se non si cerca di mettere ordine nei dati, si rischia di perdersi in una “notte in cui tutte le vacche sono nere’’.
In primo luogo occorre fare chiarezza nell’individuare le platee del lavoro povero. La proposta di legge presentata dalle opposizioni (per come viene spiegata anche dai media sempre pronti a semplificare la complessità) lascia intendere che – per motivi che non vengono spiegati – l’importo di 9 euro lordi orari rappresenta la linea di demarcazione al di sotto della quale è confinato il lavoro povero. In realtà, la proposta dei 9 euro è una subordinata rispetto all’applicazione delle retribuzioni previste dai contratti collettivi; il che lascia molti dubbi di carattere costituzionale. Ma non mettiamo troppa carne al fuoco! Quanti sarebbero i lavoratori interessati? Andiamo sul sicuro, riprendendo i dati depositati dall’Istat, in occasione dell’audizione di luglio, in Commissione Lavoro della Camera. “L’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro comporterebbe – è scritto nel documento – dunque un incremento della retribuzione annuale per 3,6 milioni di rapporti (se si escludono quelli di apprendistato si scende a poco più di 3,1 milioni, tra i quali 2,8 milioni sono per qualifica operaio). Per questi rapporti l’incremento medio annuale sarebbe pari a circa 804 euro pro-rapporto, con un incremento complessivo del monte salari stimato in oltre 2,8 miliardi di euro. L’adeguamento alla soglia minima di 9 euro determinerebbe un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 14,6% per quelli interessati dall’intervento’’.
Nel dibattito i due insiemi viaggiano in coppia: essendo 9 euro l’ora una retribuzione inadeguata, i lavoratori poveri sono 3,6 milioni. A questo punto va introdotto un altro argomento che – guarda caso – accomuna Bonomi e Landini: la piaga del dumping contrattuale (che chiama in causa l’esigenza di una legge sulla rappresentanza). E di conseguenza si lascia intendere che il caso dei 3,6 milioni di lavoratori retribuiti con meno di 9 euro l’ora siano vittime della pirateria contrattuale, il cui effetto/inquinamento delle relazioni industriali sarebbe dimostrato dal numero crescente dei contratti depositati presso l’Archivio nazionale del Cnel. In realtà si tratta di una colossale fake news. Secondo l’ultima rilevazione (Report 17°) del Cnel, nel luglio scorso erano ben 1037 i contratti depositati, di cui 976 dei settori privati. Ma dei 434 CCNL applicati a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) sono 162 (37,3%) quelli firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali o comunque rappresentate nel Cnel e “coprono” 12.517.049 lavoratori (97%); mentre 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali e non rappresentate al Cnel (ma in una certa misura “rappresentative”) “coprono” 387.066 lavoratori (3%). Questi contratti “minori” poi non vanno meccanicamente annoverati come “pirata” e riguardano lo 0,3% del complesso dei lavoratori.
È stato lo stesso Maurizio Landini a spiegare, in un’intervista, come agiscono i “pirati”: “basta che ci siano due privati, un padrone e uno che dice di essere un sindacato, che fanno un contratto, lo applicano a qualcuno, lo depositano al Cnel e questo diventa un contratto nazionale”. Che una pratica truffaldina di questo genere – sicuramente deprecabile – abbia potuto o possa coinvolgere milioni di lavoratori non sta né in cielo né in terra. Tanto più che il 97% dei lavoratori è coperto da contratti stipulati da strutture della Cgil, Cisl e Uil. Anzi, poiché il 56% di questi contratti “corretti’’ è scaduto, bisogna rassegnarsi a concludere che la grande maggioranza dei 3,6 milioni di lavoratori “under 9 euro” è (s)coperta da contratti collettivi stipulati dalle confederazioni storiche. Ma se è questa la realtà non è già chiaro quali siano le organizzazioni più rappresentative? Non ha alcun senso, allora, infilarsi in un percorso complicato come una legge sulla rappresentanza (sempre a rischio di incappare nei vincoli dell’articolo 39 Cost.) per confermare ciò che è già noto e praticato da decenni. Cgil, Cisl e Uil non hanno bisogno di una patente per liberare il campo da quattro farabutti, che speculano su di un numero marginale di lavoratori. Qui subentrano i dati del XXII Rapporto dell’INPS (come è noto l’Istituto è in gestione commissariale). Oltre il 96% dei dipendenti a ottobre 2022 (anziché a luglio 2023) risulta “coperto” da un contratto firmato da almeno una delle tre maggiori organizzazioni sindacali (quasi sempre si tratta di CCNL firmati congiuntamente; l’incidenza chiaramente non tiene conto dei casi per i quali non si dispone dell’informazione). In particolare, tutti i 28 CCNL “grandi” per numero di dipendenti coinvolti sono firmati congiuntamente dalle tre maggiori associazioni sindacali dal lato lavoratori. Sul totale dei contratti, quelli firmati da Cgil-Cisl-Uil (almeno una sigla) sono il 24% del totale; la quota esclusiva di altre organizzazioni sindacali (76% dei contratti totali e 4% dei dipendenti coinvolti) è crescente man mano che diminuisce la dimensione occupazionale dei CCNL. Tra quelli “micro” il peso delle Confederazioni sindacali maggiori dal lato lavoratori risulta molto limitato: 7% dei CCNL, 11% dei dipendenti. I CCNL non firmati da nessuna delle tre sigle sindacali principali sono complessivamente 628, di cui 539 “micro”: in tutto coinvolgono quasi 500mila dipendenti.
Come si può notare non vi sono rilevanti differenze tra questi dati e quelli rilevati dal Cnel (3% e 385mila lavoratori). La cosa si complica proseguendo oltre. L’approccio dell’INPS è diverso da quello che circola nel dibattito e che fa perno sui 9 euro lordi. Il XXII Rapporto, infatti, prende le mosse dal concetto di lavoro povero per arrivare da lì ad un’idea di salario minimo, sulla base della definizione europea di lavoratore povero ovvero il dipendente il cui reddito familiare è inferiore al 60 % del corrispondente reddito mediano nazionale. L’ INPS calcola il salario mediano pari a 588 € per un part time e a 1.116 € netti mensili per un full time (rispettivamente pari a 24,9 euro e 48,3 euro di retribuzione giornaliera lorda). Nel mese di ottobre 2022, in base a queste soglie, i lavoratori dipendenti privati poveri sono stimati dall’ INPS in 871.800, pari al 6,3% della platea di riferimento. Di questi, oltre mezzo milione sono addensati tra i dipendenti part time mentre per le fattispecie a tempo pieno essi risultano in buona parte riconducibili a tipologie contrattuali specifiche come apprendistato e intermittente. La quota restante, va ulteriormente depurata dai dipendenti che versano in una situazione temporanea di povertà superata entro l’anno di riferimento. All’esito dell’indagine, degli 871.800 lavoratori poveri inizialmente stimati, ne rimarrebbero appena 20.300 (0,2% dei lavoratori dipendenti) con una paga oraria sotto la soglia di povertà. Ciò non esclude – secondo l’INPS – che la loro presenza sia concentrata in aree “borderline” rispetto ai “normali” rapporti di lavoro dipendente: partite IVA attivate in alternativa all’impiego come dipendente; posizioni formalmente riconducibili a istanze di completamento della formazione professionale (stagisti, praticanti etc.) e idonee a camuffare rapporti e aspettative simili di fatto a quelle sottese al “normale” rapporto di lavoro dipendente; posizioni di lavoro autonomo occasionale o parasubordinato. Senza dimenticare le varie tipologie di lavoro nero, integrale o associato a posizioni parzialmente irregolari.
Può essere solo una coincidenza ma è il caso di notare che lo 0,2% dei lavoratori dipendenti a cui l’INPS arriva per altra via, non è lontano dallo 0,3% individuato dal Cnel (in valore assoluto: 44mila prestatori d’opera). Questi dati sono stati contestati dall’ex presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, il quale ha affermato: “La prima buona notizia, contenuta nel rapporto annuale Inps, appena presentato al Parlamento, che però sembra una fake news, è che il lavoro povero sia sparito, ovvero sia pari solo allo 0,2% dei lavoratori (20mila lavoratori oppure 870mila se consideriamo anche i rapporti precari). Per capire che si tratti di un dato errato basterebbe ricordare la Commissione indipendente del ministero del Lavoro nel 2021, con a capo l’economista dell’Ocse Andrea Garnero, stimava, proprio con i dati Inps, una fetta di lavoro povero pari al 31% se si considerano i redditi annuali (circa 5 milioni di lavoratori) e 22% se si considerano i redditi settimanali’’. Peccato che la relazione del gruppo Garnero comincia esprimendo considerazioni che non si discostano, almeno a livello metodologico, da quelle del XXII Rapporto: “Secondo l’indicatore adottato dall’Unione Europea, un individuo è considerato in-work poor (IWP) se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi (solitamente sette) nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale. Il concetto di IWP – prosegue il rapporto del gruppo – comprende dunque due dimensioni: la prima, individuale, connessa all’occupazione del singolo e a caratteristiche quali la stabilità occupazionale e salario del lavoro svolto; la seconda connessa alla struttura demografica e alla composizione occupazionale del nucleo familiare stesso. Per questo è necessario aver chiara la distinzione fra in-work poverty e low-pay worker, cioè occupato a bassa retribuzione: nonostante possano sembrare strettamente collegati, i due concetti sono analiticamente diversi e la bassa retribuzione individuale è solo una delle possibili cause della povertà lavorativa’’.
Membro del Comitato scientifico ADAPT