Bollettino ADAPT 26 aprile 2022, n. 16
Se qualcuno avesse tentato di mettere in discussione le speranze, i sogni e le chimere dei miei verdi anni, preconizzando che il lavoro sarebbe divenuto uno dei principali temi divisivi della sinistra, penso che lo avrei considerato un provocatore, un “nemico di classe” (come si diceva allora). Per me e tanti altri la classe lavoratrice era ancora quella rappresentata dal “Quarto Stato” nel quadro di Pellizza Da Volpedo, anche se, nella pubblicistica di allora, vi era stato un aggiornamento dei lavoratori in marcia. Non erano più solo braccianti, ma comparivano figure adibite ad altre mansioni: tutte blu e colletti bianchi. La classe operaia si sforzava di diventare classe lavoratrice (anche se gli impiegati, i tecnici venivano indotti a scioperare attraverso lo “sgombero per mano sindacale” degli uffici mentre i pubblici dipendenti venivano guardati di traverso).
Ricordo, a questo proposito un episodio che risale ai primi anni ’70. Ero insieme ad altri, nello spaccio che stava nel sotterraneo del palazzo della Cgil a Roma (lo stesso che è stato preso d’assalto il 9 ottobre scorso), dove si poteva fare colazione o prendere un caffè. Dopo un po’ arrivò Vittorio Foa, allora membro autorevole della segreteria confederale. Si discuteva del fatto che la Cisl non voleva revocare la proclamazione di uno sciopero del pubblico impiego, nonostante fosse nel frattempo intervenuta una crisi di governo. La Cisl era allora maggioritaria nella PA e ricordava che, mesi prima, in presenza di un’altra crisi di governo, la Cgil non aveva voluto revocare uno sciopero generale dell’industria. Foa non si capacitava di questa situazione e si chiedeva come mai la Cisl non si rendesse conto che uno sciopero dell’industria era in grado di fermare la reazione, mentre un’astensione del pubblico impiego l’avrebbe provocata. Comunque qualche cosa stava cambiando. Anni dopo, persino Fausto Bertinotti – lo stesso che, nel 2006, volle dedicare “alle operaie e agli operai” la sua elezione alla Presidenza della Camera – pubblicò un libretto significativamente intitolato “La Camera dei Lavori” allo scopo di riconoscere che la mitica “classe” aveva dei confini e quindi degli interessi più ampi e differenti di quelli dell’operaio adibito alla catena di montaggio di Mirafiori (che pure rimaneva l’avanguardia dello scontro di classe).
Negli ultimi 25 anni si sono, progressivamente, verificate le profezie (invero ipotetiche) di cui si parlava all’inizio: dalla riforma del mercato del lavoro del ministro Tiziano Treu, alla legge Biagi (che non venne stravolta dalle modifiche apportate da Cesare Damiano nel 2007), al decreto Poletti sul lavoro a termine, alla legge n.92/2012, fino al jobs act la sinistra riformista è stata protagonista di importanti innovazioni nel diritto e nel mercato del lavoro (arrivando a realizzare modifiche – si pensi alla disciplina dei licenziamenti individuali – che il governo e le maggioranze di centrodestra non erano mai stati in grado di fare).
I principali avversari di queste innovazioni facevano parte, anch’essi del variegato mondo delle sinistre politiche sindacali. Tanto che, nel dibattito aperto (non solo in Italia ma anche in altri Paesi europei, come il Regno Unito, la Francia e la Spagna) sulla necessità di ripristinare i valori della sinistra, sono finite sotto tiro – stigmatizzate come vere e proprie deviazioni – le riforme e la cultura della sinistra riformista. In Italia, da anni è un sindacato, la Cgil, la pietra d’angolo della sinistra di opposizione. Dalla sua parte è riuscita a portare anche la Uil, mentre la Cisl appare sempre più perplessa nel seguire una deriva che intesse una sfilza di ideologie del passato: dall’atteggiamento equivoco nei confronti del green pass, durante l’emergenza sanitaria al pacifismo fariseo davanti all’aggressione della Russia all’Ucraina, fino alla rappresentazione di una condizione economica e sociale che risponde più alla propaganda che alla realtà. Il caso ha voluto che il Congresso di una piccola formazione di sinistra (articolo 1) si svolgesse nel corso di eventi che hanno determinato il riposizionamento delle tante anime della sinistra e in presenza dell’emersione di una gauche di nuovo conio nella Francia impegnata nelle elezioni presidenziali.
Jean-Luc Mélenchon è il nuovo punto di riferimento di una sinistra che non intende sottomettersi alla globalizzazione, all’Occidente, alla Nato e quant’altro e che contende, con un programma simile, il voto di quella che fu la classe lavoratrice alla destra sovranista e populista. Chi potrebbe essere il Mèlenchon italiano? Chi se non Maurizio Landini? Colui che parla ancora di profitto e sfruttamento, che si dichiara contrario, in nome della pace, all’invio di armi all’Ucraina, che riscuote una vera e propria standing ovation quando al Congresso di Articolo 1 sostiene che «Serve subito uno scostamento di bilancio e bisogna andare a prendere le risorse dove ci sono: chi si è arricchito in questi anni deve mettere mano al portafoglio, la responsabilità non può essere sempre a senso unico». Poi il leader della Cgil sciorina per intero la sua visione della realtà. “Se una persona negli ultimi anni è stata precaria sotto governi di tutti i colori, mi spiegate che senso hanno per lui destra e sinistra? E che senso ha parlare di una Repubblica fondata sul lavoro se vengono da anni di sfruttamento?». Per quanto riguarda la sinistra: «O è rappresentanza del mondo del lavoro oppure non esiste». E “se la gente non va più a votare non è perché ha perso la testa, ma perché non si sente rappresentata da nessuno». Perciò: «Se il governo adesso non fa le cose che deve fare, poi gli elettori se lo ricordano. E non pensate che il fatto di avere una maggioranza di unità nazionale sia una giustificazione». Poi la rivendicazione dello sciopero generale del dicembre scorso: «Quando a dicembre abbiamo fatto lo sciopero generale con la Uil ci hanno dato degli irresponsabili: i punti centrali erano la mancanza di redistribuzione e di una vera riforma fiscale. Oggi questi temi sono ancora più attuali».
In sostanza, i problemi di contesto si risolvono con la pace; quelli dell’inflazione, della crisi energetica e delle materie prima, con un ricorso all’incremento dei salari e ai ristori. Nessun accenno alle contraddizioni del mercato del lavoro; al fatto che l’Italia presenta tassi elevati di disoccupazione e di estraneità al mercato del lavoro (i neet) tra i più elevati di Europa, ma nello stesso tempo le aziende, in molte località, lamentano non solo di non trovare manodopera adatta, ma spesso di non trovarne neppure disponibile. Nessuna riflessione sulla crisi della contrattazione di prossimità, legata alla produttività e alla qualità del lavoro, rispetto a quella nazionale di categoria, nel determinare sia il livello sofferente delle retribuzioni sia la ricerca, da parte di quanti hanno dalla loro il potere contrattuale delle competenze, di posto di lavoro migliori e meglio retribuite. Landini, poi, dimentica che l’Italia è il Paese che ha, solo dopo la piccola Austria, la più estesa copertura contrattuale del lavoro dipendente; dispone di una legislazione tra le più avanzate in materia di infortuni; riconosce importanti diritti ai lavoratori e ai sindacati; i principali contratti sono stati rinnovati senza drammi anche nel corso della pandemia.
In Italia, poi, continuano ad essere in vigore delle norme di tutela contro i licenziamenti ingiustificati che tanti altri Paesi sviluppati non sanno neppure che cosa siano; vanta una delle più altre percentuali di iscritti ai sindacati (magari un po’ drogate dai pensionati) tra cui un milione di lavoratori stranieri. Il suo sistema pensionistico, al di là delle regole formali, consente di andare in quiescenza ad una età effettiva media tra le più basse dell’OCSE. E – udite, udite – nonostante le riforme che i sindacati pretendono di “superare”, l’Italia è il Paese dell’anticipo, nel senso che le pensioni di anzianità (che vengono percepite ad un’età media alla decorrenza intorno ai 62 anni) superano di gran lunga i trattamenti di vecchiaia. Probabilmente sarebbe il caso di cominciare a riflettere sulle teorie di Luca Ricolfi, esposte nel saggio che descrive l’Italia come “Una signoria di massa”.
Membro del Comitato scientifico ADAPT