Bollettino ADAPT 11 settembre 2023, n. 30
Il giornale on line Neodemos, curato da un grande demografo come Massimo Livi Bacci ha pubblicato una ricerca (di Maria Francesca Morabito, Raffaele Guetto e Daniele Vignoli) da cui emerge l’influenza dei media nel determinare le scelte riproduttive delle persone. Oltre che dalla reale situazione economica personale e nazionale, gli individui sono influenzati anche dalle narrazioni del futuro che si formano nella società che li circonda. La ricerca sostiene che i media, essendo la principale fonte di informazione economica per i cittadini, hanno un ruolo cruciale nella diffusione di tali narrazioni e, di conseguenza, nell’influenzare la scelta di avere un figlio. È emerso che, all’aumentare delle notizie negative, la probabilità di concepire un figlio si riduce, mentre un aumento delle notizie positive è associato positivamente alla fecondità individuale. Le notizie economiche positive sembrano essere più importanti per i comportamenti riproduttivi rispetto a quelle negative. Ciò può dipendere dalla situazione economica nazionale: in Italia, una narrazione economica positiva offre un’esperienza maggiormente distante dallo standard a cui i cittadini sono abituati, che è quello di una nazione economicamente instabile, e quindi potenzialmente più di impatto.
L’analisi è interessante anche perché aggiunge un ulteriore elemento di spiegazione dell’inverno demografico italiano, riconducibile alla linea catastrofista che imperversa nel dibattito pubblico e che viene gonfiata dai talk show per i quali fanno notizia solo gli esseri umani che mordono i cani. Ovviamente quest’analisi evidenzia due riscontri in simbiosi tra loro: la gente crede a ciò che vede in televisione, visto che non legge i giornali (“l’ha detto la televisione!”); di conseguenza, perché un fatto sia credibile lo deve confermare quello che una volta si chiamava il piccolo schermo. Chi si avventura a seguire il tg e fa zapping sui programmi di attualità avrà notato che si parla sempre più insistentemente di un fenomeno definito mismatch, un concetto che denuncia una, condizione di disequilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Nel nostro caso questo squilibrio è determinato da un’offerta inadeguata rispetto alla domanda, non solo sul piano qualitativo, ma anche – e da tempo – su quello quantitativo. È un fenomeno che ha caratteristiche ed influenza differenti nel contesto dei grandi squilibri strutturali del Paese relativi ai settori, al territorio, al genere e all’età; ma che ha assunto ormai un trend molto diffuso nonostante i divari che ci affliggono e che incidono in misura diversa nelle differenti realtà.
I media hanno scoperto le rilevazioni mensili del programma Excelsior di Unioncamere e in misura sempre più diffusa effettuano interviste di imprenditori che lamentano la difficoltà di reperire il personale occorrente non solo per quanto concerne le professionalità richieste, ma spesso incontrano un’effettiva indisponibilità a svolgere qualunque mansione. E non si tratta solo del turismo e dei servizi (settori per il quali Maurizio Landini non esitava a proclamare che è giusto rifiutare un lavoro retribuito con mille euro al mese) ma anche nell’industria manifatturiera con produzioni qualificate. Mi è capitato di vedere l’intervista di un imprenditore che imbattendosi, a Napoli, in una manifestazione di persone a cui è stato tolto il reddito di cittadinanza, si è intrattenuto con loro e ha comunicato il suo numero telefonico, invitandoli a mettersi in contatto per un’eventuale assunzione. Può essere che questi imprenditori colgano l’occasione per esagerare nei loro racconti, come capitava – al tempo degli Unni – ascoltando le storie di lavoratori e pensionati in condizione di indigenza, senza la possibilità di avvalersi delle tutele previste, perché oppressi da un contesto di sfruttamento privo di alternative. Diceva Giulio Andreotti che a pensare male si commette un peccato, ma spesso ci si indovina. A me è capitato persino di sospettare che le nuove maggioranze politiche influenzino anche le linee editoriali delle reti televisive. Ma trovo che adesso la comunicazione metta in evidenza situazione del mercato del lavoro molto preoccupanti, troppo a lungo ignorate perché entravano in contraddizione con la visione catastrofista di parte della sinistra politica e sindacale, oggi impegnata nel ripudio delle politiche del lavoro portate avanti (si pensi al jobs act) da posizioni di maggioranza e di governo.
Comunque sia ha colpito l’opinione pubblica la rilevazione Excelsior di agosto da cui emerge una difficoltà di reperimento del 48% delle assunzioni previste (come vedremo si tratta di un dato record in un trend che dura da anni). Il 48% poi è un dato medio perché per talune professioni le difficoltà sono maggiori (il 61,5% per gli operai specializzati), mentre assume un rilievo significativo anche il 33% del personale non qualificato. Purtroppo è una storia ormai divenuta “stabile” perché ripetuta con le medesime difficoltà ad ogni rilevazione. Attraverso una breve consultazione del mio archivio personale ho trovato una relazione di Pietro Ichino svolta all’Università di Messina il 30 marzo 2012 dove veniva citato il Rapporto Excelsior Unioncamere 2011 che denunciava 117.000 scoperture, ma – aggiungeva – “si stima che siano molte di più: come ci sono i «lavoratori scoraggiati», così ci sono gli imprenditori che rinunciano a cercare”.
Prendendo gli anni della crisi sanitaria come un periodo anomalo, ci imbattiamo in una linea di mismatch che diventa strutturale. Ad ottobre del 2018 si riscontrava un aumento (di oltre due punti percentuali rispetto ad ottobre 2017) della quota di imprese che programmavano assunzioni, ma era cresciuta anche la difficoltà di far incontrare domanda e offerta di lavoro. Made in Italy e meccatronica erano i settori dove si registravano le maggiori difficoltà di incontro domanda-offerta di lavoro. Il mismatch si proiettava in direzione dei prossimi anni. Secondo Excelsior, nel quinquennio 2018-2022 sarebbero stati necessari più di 2,5 milioni di occupati, dipendenti e autonomi: oltre il 70% di questi nuovi ingressi, ovvero 1,8 milioni di lavoratori, avrebbe dovuto possedere competenze piuttosto elevate e qualificate (per il 35,8% si parlava espressamente di «high skills» – professioni specialistiche e tecniche). Delle oltre 2,5 milioni di entrate programmate nei cinque anni dalle imprese del settore privato e di quello pubblico, inoltre, poco più del 30% sarebbe stato appannaggio di laureati, per una quota pari quasi a 780mila posizioni, mentre circa 810mila posizioni sarebbero andate a diplomati (31,4%). Considerando i tassi di fabbisogno settoriali, nelle prime posizioni di questa graduatoria si trovavano la sanità e l’assistenza sociale (con un tasso medio annuo di fabbisogno del 3,8%), il turismo e la ristorazione (3%), le public utilities (2,9%), l’istruzione (2,8%) e i servizi operativi alle imprese e alle persone (2,6%). Il settore della sanità-assistenza doveva questo risultato soprattutto al valore della replacement demand (in pratica la ricomposizione del turn over); il turismo e la ristorazione mostravano invece il tasso più elevato in assoluto di expansion demand (come effetto della crescita e dello sviluppo).
Persino durante la battuta d’arresto imposta dalla pandemia e dalle misure di emergenza adottate è continuato a sussistere il problema di una domanda di lavoro che non riusciva a reperire sul mercato una adeguata offerta. Secondo il Rapporto Excelsior-Camere di Commercio, relativo al mese di ottobre 2020 e tratto da questionari compilati da 140mila imprese (che durante il lockdown non avevano potuto effettuare assunzioni), erano previste entrate pari a 281.810 (da ottobre a dicembre: 763.770). La difficoltà di reperimento riguardava il 33% del complesso. E dopo la pandemia? Il 2022 è stato l’anno dell’aggressione russa dell’Ucraina e di tanti altri eventi che hanno fatto temere lo scatenarsi delle “sette piaghe” d’Egitto. Dapprima c’è stato l’allarme per le sanzioni economiche che – secondo certa propaganda ben alimentata dai talk show – avrebbero provocati effetti nefasti sulla nostra economia più che su quella russa. Le televisioni andavano alla caccia di imprenditori che raccontavano quale fosse il danno subito dalla sua azienda, dal venire meno del mercato russo. Poi era scoppiata, insieme a quella delle materie prime, la crisi energetica già innescata in precedenza dagli sconquassi determinati dalla pandemia sui mercati globali. Per settimane abbiamo assistito all’esibizione di bollette impazzite e a famiglie che si dichiaravano costrette a digiunare per poterle pagare.
Benché si fosse in campagna elettorale con il governo Draghi in carica per gli affari correnti, da tutta Italia proveniva la rivendicazione di uno scostamento di bilancio di almeno 30 miliardi, nello stesso momento in cui con i decreti aiuti il governo ne stanziava complessivamente, in diverse rate nell’arco di alcuni mesi, circo 60. Ma agli italiani si spiegava che l’autunno e l’inverno avrebbero portato gelo, fame, miseria, chiusura di aziende, licenziamenti in massa, razionamenti di beni essenziali, scaffali vuoti nei supermercati, nel contesto di un’inflazione che era ripartita alla grande dopo decenni trascorsi a sonnecchiare con tassi da prefisso telefonico. Eppure, anche in quegli anni, il Rapporto Excelsior aveva puntualmente smentito le previsioni malefiche dei seminatori di zizzania. La difficoltà nel reperire forza lavoro era cresciuta praticamente in tutti i settori, anche in quelli dove la domanda di lavoro non era aumentata. Tra i settori con maggiore incremento delle difficoltà di reperimento, vi era quello delle costruzioni, che nel biennio 2021-22 aveva realizzato una fase di crescita particolarmente pronunciata. In questo settore, la proporzione di assunzioni che le imprese giudicavano difficili da realizzare era arrivata a sfiorare il 52% nel 2022. Le tensioni non erano da ricondurre però soltanto agli andamenti della domanda. Pesavano anche i fattori dell’offerta: guardando al complesso delle attività economiche, emergeva che la causa principale della difficoltà di reperimento stava nella mancanza di candidati. Nel 2022 tale motivazione venne espressa per il 24,6% dei profili ricercati, mostrando un incremento di oltre 8 punti percentuali rispetto all’anno precedente. La seconda difficoltà riscontrata riguardava la preparazione non adeguata dei candidati, circostanza che le imprese hanno indicato nel 12,4% dei casi.
A fronte delle criticità evidenziate, le imprese iniziarono a mettere in campo una serie di strategie per ovviare alle difficoltà di reperimento, assumendo figure con caratteristiche simili per poi formarle internamente (questa fu la strategia prevalente, dove era possibile) o ampliando la ricerca a livello territoriale. Mentre nella vita reale del Paese avvenivano questi processi lo Stato cumulava 30 miliardi di spesa per il reddito di cittadinanza, senza riuscire – sul versante delle politiche attive – a fornire un contributo al fabbisogno di personale richiesto dalle imprese.
Membro del Comitato scientifico ADAPT