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Nell’ordinamento dello Stato la giurisprudenza non è fonte del diritto. Tuttavia, in assenza di fonti legislative, almeno fino allo Statuto dei lavoratori del 1970 la giurisprudenza – in sinergia con la dottrina – ha svolto un ruolo fondamentale nel definire l’architettura del nuovo diritto sindacale al di fuori del recinto pubblicistico del periodo corporativo, individuando le pietre d’angolo su cui negli anni è stato costruito l’intero edificio. Ci riferiamo, in particolare, alla nozione di contratto collettivo di diritto comune e all’utilizzo dei principi sanciti dall’articolo 36 Cost. (in tema di giusta retribuzione) per rafforzarne l’efficacia; all’elaborazione – ancora più complessa vista la laconicità dell’articolo 40 Cost. – dei limiti al diritto di sciopero.
Ed è nell’ambito di questa ricerca condotta insieme dalla dottrina e dalla giurisprudenza – la prima ad alimento della seconda e viceversa – che riteniamo opportuno richiamare in premessa alcune nozioni giuridiche e talune esplicite norme di legge, come premessa per commentare una recente sentenza del Tribunale di Roma, intervenuta in coda all’amara e travagliata conclusione della vertenza Almaviva, un’azienda che opera nella tecnologia dell’informazione e nei servizi di outsourcing a livello globale ed impiega 45mila persone, 12mila delle quali in Italia.
Partiamo dal concetto di interesse collettivo, ricordando la definizione, generalmente condivisa, che ne ha dato Francesco Santoro Passarelli: “L’interesse collettivo non è la somma di interessi individuali, ma la loro combinazione ed è indivisibile, nel senso che viene soddisfatto non già da più beni atti a soddisfare bisogni individuali, ma da un unico bene atto a soddisfare il bisogno della collettività”. Portatore dell’interesse collettivo (che è sempre interesse di parte e non coincide con quello generale) è il sindacato. Come ha chiarito Gino Giugni l’interesse collettivo non è “un’essenza ontologica’’, ma una convenzione riguardante l’esito di un processo per determinare la formazione di una volontà riguardante una pluralità organizzata di lavoratori. Il contratto collettivo di diritto comune è valido ed operante quando interviene lo scambio di adesioni (la sottoscrizione) da parte dei soggetti che rappresentano, sulla base di un mandato, gli interessi collettivi combinati nelle norme dell’intesa. Il fatto che siano ormai consuete procedure di consultazione dei lavoratori (assemblee o referendum) non è un elemento costitutivo dell’accordo, ma una procedura interna adottata da una delle parti che, a tal fine, sottopone a condizione sospensiva (il parere maggioritario dei lavoratori partecipanti alle forme di consultazione) la sua adesione definitiva all’accordo stesso.
Un altro tema di dibattito riguarda l‘immodificabilità in peius nei rapporti “gerarchici” tra diversi contratti collettivi (specificatamente tra contratto individuale e contratto collettivo). A lungo si è discusso sull’applicabilità dell’articolo 2077 cod. civ., ereditato dal diritto corporativo. Da tempo la giurisprudenza si è orientata a riconoscere la possibilità di deroghe in peius ove questa scelta serva a garantire la salvaguardia di un’attività produttiva e della relativa occupazione. Il dlgs n.81 del 2015 salta a piè pari il fosso di un altro storico divieto attinente allo ius variandi stabilendo che, oltre a quelle indicate nel testo novellato dell’articolo 2103 cod. civ., ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva, con il solo limite del rientro nella medesima categoria legale. Ha tolto, poi, ogni dubbio interpretativo l’articolo 8 del d.l. n.138/2011 quando dispone: “Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro’’. Ma la migliore dottrina era già arrivata, da tempo, a sostenere che l’articolo 2077 cod. civ. non poteva essere applicato nei rapporti tra contratti collettivi (di pari livello) e che fossero legittimati a stipulare contratti collettivi in deroga ai contenuti dei contratti generali (è questa la terminologia usata da Gino Giugni) soltanto i soggetti riferibili all’organizzazione stipulanti dell’altro contratto.
Last but not least, la disciplina dei licenziamenti collettivi consistente – anche dopo le più recenti modifiche del pacchetto attuativo del jobs act – in una procedura obbligatoria di carattere sindacale e amministrativo, espletata la quale le parti sono tenute a dare esecuzione alle intese intervenute o, in caso di mancato accordo, sono legittimate a riprendere la propria libertà d’azione.
Per sommi capi questo è il quadro giuridico in cui si è svolta la vertenza Almaviva, con l’attiva mediazione del Mise (rappresentato dal vice ministro Teresa Bellanova, una persona di grande esperienza e tenacia). I fatti sono noti. A ottobre 2016 Almaviva Contact aveva annunciato di aver perso 100 milioni di fatturato negli ultimi quattro anni e di aver aperto una procedura di riorganizzazione aziendale (con riduzione di personale). Il Governo ha avanzato una proposta di accordo, siglata al Mise a dicembre 2016 dall’azienda e dalle rappresentanze sindacali della sede di Napoli, mentre i rappresentanti sindacali di Roma non hanno firmato l’accordo. Il call center di Roma è stato condannato alla chiusura, causando 1.666 licenziamenti. La proposta di accordo prevedeva una proroga di tre mesi, (con l’intervento della cassa integrazione, appositamente finanziata) delle trattative per dare tempo e modo alle parti di”individuare soluzioni in tema di recupero di efficienza e produttività in grado di allineare le sedi di Roma e Napoli alle altre sedi aziendal” e”interventi temporanei sul costo del lavoro” (era stata ritirata la proposta avanzata all’inizio della vertenza dalla società, criticata dai sindacati, che prevedeva un congelamento degli scatti di anzianità e una parziale temporanea riduzione delle retribuzioni).
Che il rifiuto dell’accordo producesse la chiusura della sede di Roma era una conseguenza che stava sul tavolo del negoziato fin dall’inizio e che era presente tanto ai sindacati quanto al ministero. Come un fulmine a ciel sereno – ad un anno di distanza da quegli avvenimenti- scoppia come un petardo pericoloso la sentenza del tribunale di Roma che ha accolto il ricorso contro il licenziamento presentato da circa 150 ex dipendenti della sede di Roma. La scelta di Almaviva, che ha complessivamente lasciato a casa 1.666 persone nello stabilimento di Roma, “si risolve in una vera e propria illegittima discriminazione: chi non accetta di vedersi abbattere la retribuzione (a parità di orario e di mansioni) e lo stesso tfr, in spregio” alle norme del codice civile e costituzionali “ancora vigenti, viene licenziato e chi accetta viene invece salvato”. Così ha scritto il giudice del lavoro di Roma Umberto Buonassisi, nell’ordinanza su Almaviva. “Un messaggio davvero inquietante anche per il futuro – sottolinea il giudice – e che si traduce comunque in una condotta illegittima perché attribuisce valore decisivo ai fini della scelta dei lavoratori da licenziare, pur se tramite lo schermo dell’accordo sindacale, ad un fattore (il maggiore costo del personale di una certa sede rispetto ad altre) che per legge è invece del tutto irrilevante a questo fine” (e i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dove sono finiti?)
A dire la verità “inquieti” siamo noi a leggere un inedito ed inatteso esempio di giurisprudenza “creativa”. E lo stupore s’ingigantisce quando un accordo sindacale, mediato dal governo e rivolto a salvare l’occupazione, viene definito uno “schermo”. Non si era mai vista una sentenza che pretendesse di realizzare un vero e proprio “imponibile di manodopera” contrario – questo sì – a quanto dispone l’articolo 41 Cost.
Membro del Comitato scientifico ADAPT