Bollettino ADAPT 22 novembre 2021, n. 41
In una sua pubblicazione l’Istat (con la presentazione del presidente Gian Carlo Blangiardo) ha affrontato in tutti i suoi aspetti il tema cruciale del “Invecchiamento attivo e condizioni di vita degli anziani in Italia”. In Italia si tratta di una questione che al massimo è oggetto di discussione in una tavola rotonda di sociologi visionari (nel senso positivo che hanno una visione del futuro prossimo della società italiana). Può darsi, anche, che in occasione di una kermesse dei potenti sindacati dei pensionati, ci scappi una conferenza sull’invecchiamento attivo per dimostrare di essere moderni. In ogni caso, però, la linea generale è un’altra: si deve andare in pensione il più presto possibile (si veda il confronto aperto tra il governo e le confederazioni sindacali); poi se un anziano/giovane (come sono i nostri pensionati di anzianità) non vuole accontentarsi di portare a spasso il cane o recarsi al Centro anziani per la consueta partita a carte, è opportuno che si dedichi al volontariato. Ma non si azzardi a ritardare il pensionamento o a continuare a lavorare da pensionato, macchiandosi così della responsabilità di “rubare un posto a un giovane”.
Ormai siamo andati oltre la percezione. In certi campi domina ancora l’ideologia: guai a mettere in discussione le analisi correnti e consolidate, anche se è provato che si parla di una società che non esiste. Qualcuno ha visto intervistare in tv un pensionato che non si accontenti di un assegno di poche centinaia di euro o che non riesca a pagare le bollette? Pensione e povertà sono ormai parte dell’immaginario collettivo; costituiscono, invece, un fenomeno reale ma non una condizione generale che, in quanto tale, viene smentita dai dati. Per non parlare poi della denuncia di una distribuzione dei redditi iniqua, grazie alla quale “i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri”.
Alberto Brambilla, presidente della Fondazione Itinerari previdenziali è lui pure una persona “politicamente scorretta”, meritevole pertanto di citazione in questa rubrica. Scrive Brambilla che ‘34,1 milioni di abitanti, poco più del 57%, pagano 14,7 miliardi di IRPEF, pari all’8,35% del totale d’imposta. È un dato credibile? Difficile pensare – prosegue – che gli abitanti di un Paese membro del G7 vivano come quelli di un Paese del nord Africa. Anche perché, seconda grande sorpresa, in Italia le connessioni da telefono mobile sono oltre 77,71 milioni, cioè più del 125% degli abitanti, mentre il 97% degli italiani risulta avere almeno uno smartphone, ma sono in molti ad averne almeno due. Per non parlare del gioco d’azzardo che, stando ai numeri, per molti concittadini è più importante della salute o di altre spese primarie. Di fatto, secondo i dati dell’Agenzia dei Monopoli, i nostri connazionali hanno investito nel 2019 oltre 125 miliardi di euro tra gioco regolare e irregolare, cioè più della spesa sanitaria totale che si ferma sotto i 115 miliardi.
Secondo i dati ACI, il parco circolante in Italia nel 2019 è di 52.401.299 unità, composto da 39.545.232 auto; solo il Lussemburgo ha più macchine di noi tra gli Stati dell’Unione Europea, anche se va considerato che il 56% delle vetture nel nostro Paese ha tra 5 e 20 anni di anzianità (in quanto vecchie, costano in manutenzione più del nuovo); rispetto all’anno precedente si registra un aumento dell’1,4%. Dopo le autovetture vengono i motocicli con 6.896.048 unità e i veicoli commerciali e industriali con 5.775.006 unità. Ma Brambilla va oltre (anche se non ricorda le dimensioni del risparmio delle famiglie italiane e delle proprietà immobiliari). Non male per un popolo di poveri. Quelli che dichiarano guadagni annuali dai 35.000 in su sono solo il 13,22%, cioè 5,5 milioni, meno del 10% della popolazione, ma pagano il 58,86% di tutta l’IRPEF e non godono di alcuna agevolazione, bonus, sconti. Solo, e ci mancherebbe altro, i bonus edilizi, la previdenza complementare e poco altro. Sommando anche i redditi da 29.000 a 35mila risulta che il 71,5% di tutta l’IRPEF è a carico del solo 21%. E c’è molta gente in Parlamento – si adira Brambilla – che vorrebbe aumentare a questo 21% di “maledetti” ricchi, le tasse o applicare una patrimoniale, magari anche sugli immobili con la revisione del catasto. E anche aumentare la tassazione sui redditi finanziari, senza capire che se uccidiamo il risparmio possiamo dire addio sostegno all’economia e all’acquisto di titoli di Stato. Peraltro, gran parte di questo 21% è costituito da quanti, come imprenditori o dirigenti d’azienda, creano occupazione, non disponibile per decreto.
I dichiaranti redditi lordi sopra i 100mila euro (in Italia si parla sempre di lordo, il netto di 100mila euro è pari a circa di 52 mila euro netti) sono solo l’1,21%, pari a poco più 501.840 contribuenti, che tuttavia versano il 19,56% (19,80 nel 2018) dell’IRPEF. In sostanza, ci sono più cose tra il cielo e la terra – direbbe un principe Amleto redivivo – che in tutte le puntate dei talk show più importanti. Il rapporto Istat, poi, sottolinea che le dinamiche economiche, le politiche del lavoro e le riforme pensionistiche degli ultimi 12 anni hanno contribuito a mutare il mercato del lavoro italiano sotto molteplici aspetti. La performance occupazionale negativa del periodo 2007-2012 ha colpito soprattutto i settori dell’industria in senso stretto e delle costruzioni, caratterizzati da alta intensità di lavoro, maschile e a tempo pieno; parallelamente si è assistito a un processo di terziarizzazione dell’economia, con la crescita soprattutto di settori come quello dei servizi alla persona e collettivi, caratterizzati da lavoro a orario ridotto, contratti a termine e più alta intensità di lavoro femminile.
Durante il sostanziale miglioramento registrato nel mercato del lavoro italiano negli ultimi cinque anni, l’occupazione è tornata sopra i livelli precrisi: il tasso di occupazione dei 15-74enni nel 2018 si è ristabilito sul 51,2 per cento, lo stesso livello del 2007. Tra il 2007 e il 2018 le caratteristiche dell’occupazione sono risultate tuttavia profondamente mutate, anche in termini socio-demografici. E ci mettono lo zampino gli anziani/giovani.
L’ampliamento del divario tra regioni meridionali e regioni centro-settentrionali è attribuibile in larga parte alla diversa dinamica territoriale del tasso di occupazione dei 55- 64enni. In questa classe di età infatti tra il 2007 e il 2018 il tasso è salito di oltre 27 punti al Nord e di circa 20 punti al Centro mentre nel Mezzogiorno, dove nel 2007 risultava in linea con la media italiana, è aumentato poco più di 6 punti, attestandosi su livelli appena superiori al 50 per cento. Pesano su tale risultato, soprattutto le performance di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. In queste regioni i livelli occupazionali, già inferiori alla media nazionale nel 2007, hanno registrato nel periodo 2007-2018 incrementi piuttosto contenuti: in controtendenza con quanto rilevato invece nelle altre regioni, qui i tassi di occupazione dei 55-64enni sono cresciuti a ritmi più lenti, o addirittura sono diminuiti, come nel caso specifico dei 55-59enni in Calabria. Sempre nel Mezzogiorno peggiorano, pur restando in linea con la media nazionale, Abruzzo e Basilicata, che dalle posizioni di metà classifica del 2007 scendono rispettivamente alla tredicesima e diciassettesima posizione. Il Centro a distanza di 12 anni si conferma l’area con l’indice dell’occupazione più elevato: le sue regioni anche nel 2018 si collocano infatti nei primi dieci posti della graduatoria. La Toscana guadagna due posizioni, diventando terza, a discapito delle Marche, stabile al quarto posto e, del Lazio, che scende alla sesta posizione.
Grazie in particolare alla crescita registrata tra i 55-64enni, abbinata a tassi di occupazione già nel 2007 ampiamente superiori alla media, l’Emilia-Romagna conferma il secondo posto. Più complessa e diversificata la dinamica che ha interessato le regioni settentrionali. Al di là infatti della provincia autonoma di Bolzano, che si è confermata in testa alla classifica, con l’indice che da 24,9 punti del 2007 è salito a 37,9 punti del 2018, sono da notare le performance di Piemonte, Veneto e soprattutto Friuli-Venezia Giulia. Nonostante il Nord rappresenti generalmente l’area del Paese più sviluppata dal punto di vista economico e con tassi di occupazione totale più elevati, queste tre regioni nel 2007 si collocavano in fondo alla classifica. Il motivo è riconducibile agli ingressi precoci nel mondo del lavoro che caratterizzano questi territori, generando carriere lavorative tali da consentire, prima del 2012, il ritiro anticipato dal lavoro, sovente prima dei 60 anni di età. A seguito dell’innalzamento dei requisiti per accedere alla pensione, in queste regioni il tasso di occupazione è aumentato specie tra i 55-64enni. Per lo stesso motivo risultano invece molto contenuti i livelli e gli incrementi dei tassi dei sessantacinquenni e oltre.
Riguardo al divario di genere si è ridotto a livello nazionale, registrando però nel corso dei 12 anni un andamento alterno: è diminuito tra il 2007 e il 2012 e si è ampliato tra il 2012 e il 2018. Il tasso di occupazione degli individui tra i 55 e i 74 anni è salito dal 20,5 per cento del 2007 al 33,3 per cento del 2018. In particolare tra i 55 e i 64enni, in virtù delle riforme previdenziali, il tasso è salito dal 33,7 per cento del 2007 al 53,7 per cento del 2018. L’Italia tuttavia, nonostante il progresso degli ultimi anni, continua a caratterizzarsi per una scarsa partecipazione attiva sul mercato del lavoro anche tra le fasce di popolazione più adulte e, pertanto, resta ancora lontana dalla media europea.
FONDO PENSIONI LAVORATORI DIPENDENTI |
(compresi i trattamenti degli ex Enti creditizi e delle contabilità separate) |
Età media alla decorrenza delle pensioni liquidate per categoria, anno di decorrenza e sesso |
Rilevazione al 02/10/2021 |
(età in anni compiuti) |
Decorrenti ANNO 2020 |
Decorrenti gennaio – settembre 2021 |
Sesso |
Vecchiaia |
Anticipate |
Invalidità |
Superstiti |
Totale |
(1) |
|||||
Maschi |
66,8 |
61,6 |
54,2 |
76,8 |
64,2 |
Femmine |
67,1 |
61,0 |
53,2 |
74,8 |
69,2 |
Totale |
67,0 |
61,4 |
53,9 |
75,2 |
67,0 |
di cui: |
Decorrenti gennaio – settembre 2020 |
||||
Maschi |
66,8 |
61,7 |
54,2 |
76,8 |
64,3 |
Femmine |
67,1 |
61,0 |
53,1 |
74,8 |
69,2 |
Totale |
67,0 |
61,5 |
53,8 |
75,2 |
66,9 |
Maschi |
66,9 |
61,6 |
54,5 |
77,7 |
64,3 |
Femmine |
67,1 |
60,9 |
53,3 |
74,8 |
68,8 |
Totale |
67,0 |
61,3 |
54,0 |
75,3 |
66,8 |
(1) Compresi i prepensionamenti |
La tabella serve ad aggiornare i dati del rapporto Istat che arrivano solo al 2018. Vedono in evidenza l’età media alla decorrenza della pensione nell’arco di tempo che copre fino alla terza ondata la crisi sanitaria e i suoi effetti sull’economia e l’occupazione. In questo periodo peraltro erano attive le misure sperimentali e temporanee introdotte dal decreto n.4/2019 (quota 100 e il blocco dell’incremento automatico del pensionamento ordinario di anzianità a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e uno in meno per le donne.
Membro del Comitato scientifico ADAPT