Politically (in)correct – “Basta la parola”

Bollettino ADAPT 13 novembre 2023, n. 39

 

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. È l’incipit del Libro della genesi. Ma non vogliamo esagerare. Ci accontentiamo di lasciare in pace i santi e di scherzare coi fanti sulla magia della “parola”. Passiamo dunque dal sacro al profano. Ai tempi gloriosi di Carosello (un programma che ha scandito i tempi di vita di milioni di bambini) un celebre sketch si concludeva con una battuta: “basta la parola”. Soprattutto chi si misura con le leggi e il diritto ha imparato a prestare molta attenzione all’uso della «parola», giacché ognuna di esse esprime un concetto diverso che può dare un significato anch’esso diverso ad un contratto o ad un reato, ad un comportamento o ad un’azione di un cittadino che possono determinare conseguenze diverse nel contesto dell’ordinamento giuridico.

 

Per fare un esempio consono con i temi affrontati in questa sede, prendiamo a riferimento due aggettivi contenuti nell’articolo 38 della Costituzione, in cui vengono definiti i diritti sociali del cittadino e del lavoratore. “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Negli aggettivi (necessari e adeguati) che accompagnano nei due casi la parola mezzi si possono individuare addirittura una differenza nelle politiche pubbliche a cui è tenuto lo Stato verso il cittadino e il lavoratore. Ma non facciamola troppo lunga; ci limitiamo a ripetere una considerazione di un grande giurista di altri tempi: bastano tre parole del legislatore per mandare al macero intere biblioteche. Capita allora ad un orecchio esperto di approfondire quando la sostituzione di alcune parole con altre riguardano un tema delicato più che mai all’ordine del giorno nel campo del diritto sindacale: la questione della rappresentanza che diventa, per tanti motivi, sempre più cruciale e sempre meno risolvibile.

 

Per di più la questione si pone nell’ambito del d.lgs.  n. 81 del 2008, che è il Testo unico sulla salute e la sicurezza del lavoro. In sostanza: due piccioni con una fava. Nel ddl che è divenuto il collegato Lavoro del disegno di legge di bilancio, all’articolo 2 (Modifiche al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81) sono apportate nella lettera b) le seguenti modificazioni: «all’articolo 12, comma 1», le parole «comparativamente più rappresentative» sono sostituite dalle parole «maggiormente rappresentative». Andiamo a leggere la norma modificata: 1. Gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali, gli enti pubblici nazionali, le regioni e le province autonome, nonché, di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti, le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i consigli nazionali degli ordini o collegi professionali, possono inoltrare alla Commissione per gli interpelli (omissis), quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro. Questa modifica riguarda, nel Testo Unico sulla salute e la sicurezza, l’identità dei soggetti che possono rivolgere un interpello “sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro”. L’Interpello: in ambito di sicurezza sul lavoro consiste in un quesito di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro a cui risponde la Commissione per gli Interpelli, con appropriate indicazioni sui problemi posti dal soggetto interpellante. Per quale motivo, allora, si è ritenuta necessaria una modifica del criterio della rappresentanza per quest’ultimo? La Commissione per gli interpelli, prima di rispondere e fornire prescrizioni e chiarimenti, si accertava forse che l’organizzazione sindacale interpellante fosse comparativamente più rappresentativa, non sentendosi vincolata a farlo negli altri casi? Sarà bene spiegare la differenza tra in due criteri che definiscono la rappresentatività.

 

Con la locuzione “sindacato maggiormente rappresentativo” il legislatore – secondo la dottrina prevalente – voleva attribuire specifiche prerogative e diritti alle associazioni sindacali operanti in determinati contesti lavorativi, rispetto alle quali l’analisi sulla rappresentatività doveva tenere adeguatamente conto della necessità di tutelare il principio del pluralismo, allo scopo di evitare che un deficit in termini astratti di rappresentatività si traducesse in una sostanziale compromissione dell’esercizio delle libertà di azione sindacale costituzionalmente garantite. Dunque, la nozione di “maggiore rappresentatività” riguarda una “accezione inclusiva”, non riferendosi ad una comparazione fra le varie confederazioni nazionali, ma ad una effettività della loro forza rappresentativa. Quando l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori si riferiva (nella parte abrogata da un referendum sciagurato) alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, non preconizzava un numero chiuso, ma intendeva definire le caratteristiche che consentivano di coniugare la libertà e il pluralismo sindacale con un adeguato livello di rappresentatività.

 

Diversamente, la definizione di associazioni comparativamente più rappresentative presuppone una selezione delle associazioni sindacali, sulla base di una valutazione comparativa della effettiva capacità di rappresentanza di ciascuna di esse. E ciò al fine di subordinare il godimento di determinate prerogative alla effettiva capacità rappresentativa delle organizzazioni soggette al giudizio comparativo In tale contesto, il concetto di rappresentatività comparata (e non più presunta) risulta incompatibile con ogni riconoscimento aprioristico ed irreversibile della rappresentatività in capo ad un’organizzazione sindacale ed impone una costante verifica ed un aggiornamento del confronto tra le organizzazioni sindacali sulla base degli indici oggettivamente verificabili e contendibili. All’interno del nostro ordinamento sindacale, il canone della rappresentatività comparativa ha ampiamente preso il posto del criterio della maggiore rappresentatività, anche a seguito della mutilazione subita dall’articolo 19 della legge n. 300/1970.

 

In seguito sono emersi problemi nuovi: la comparsa sulla scena del mercato del lavoro di nuovi soggetti, dotati di una effettiva rappresentatività sia pure in settori parziali e limitati e il contestuale emergere di casi di compresenza di più contratti collettivi nel medesimo ambito – tutti astrattamente applicabili allo stesso rapporto di lavoro: circostanze che hanno indotto il legislatore ad elaborare la nuova nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo allo scopo di individuare nei contratti stipulati da questi soggetti quella retribuzione imponibile a fini previdenziali, di cui  alla L. n. 549/1995. Perché allora nel settore della sicurezza si vuole tornare alla previgente definizione inclusiva?. C’è indubbiamente un effetto pratico: i sindacati comparativamente più rappresentativi non possono avere il monopolio della tutela dei lavoratori ai fini della loro sicurezza; e la presentazione di Interpelli alle competenti autorità fa certamente parte di questa tutela. Ma non sarebbe un processo alle intenzioni individuare nella modifica terminologica, di cui abbiamo parlato fino adesso, un segnale di attenzione del governo nei confronti di un’ampia platea di sindacati “minori”, solitamente emarginati nella dialettica delle relazioni industriali. Si comincia – ed è corretto – dalla funzione sindacale in materia di sicurezza, ma, strada facendo, la svolta ad U potrebbe estendersi ad altri settori. A chi scrive non risulta che il segnale sia stato intercettato dalle antenne dei sindacati storici.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Politically (in)correct – “Basta la parola”