Politically (in)correct – Bolkestein, chi era costui?

Mentre i taxisti paralizzavano il traffico e mettevano a soqquadro le città, i venditori ambulanti protestavano contro la “perfida Europa” per via della c.d. Direttiva Bolkestein, colpevole di liberalizzare i servizi, commercio compreso, con l’obbligo di mettere a bando le concessioni in scadenza di spazi pubblici e beni demaniali. Già negli anni scorsi, ad esempio, contro la direttiva Bolkestein vi erano state le proteste dei titolari di concessioni delle spiagge italiane, a causa del rinnovo delle stesse, alla loro scadenza, con un accordo diretto pubblico-privato, senza delle vere e proprie gare a cui avessero accesso anche altri operatori.

 

Di recente, in ottemperanza di una sentenza della Corte di Giustizia, il governo ha deciso di intervenire   con un disegno di legge delega per il “riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico ricreativo per favorire, nel rispetto della normativa europea, lo sviluppo e l’innovazione dell’impresa turistico-ricreativa”. Questa iniziativa ha suscitato le preoccupazioni e le proteste preventive delle categorie interessate, con la protezione di quelle forze politiche populiste abituate ormai a sparare su tutte le Croce rosse che vengono a tiro.

 

È il caso, allora, di fare un po’ di storia. Innanzi tutto chi è Frits Bolkestein?  È presto detto. Dal suo curriculum vitae apprendiamo che è nato in Olanda nel 1933, ha tre figli, è stato dirigente della Shell prima di passare alla politica nel 1978 come parlamentare liberale. Da ministro, ha ricoperto diversi incarichi nei governi del suo paese. È divenuto, poi, presidente dell’Internazionale liberale alla fine degli anni ’90 prima di essere nominato commissario europeo al mercato interno, tasse e dogane. Un normale cursus honorum, dunque, come quelli di tante altre personalità a cui sono state affidate le sorti dell’Unione. Eppure, questo signore (oggi pensionato ed intento a curare i tulipani del  giardino) è riuscito a scrivere il suo nome nell’elenco dei “cattivi”: quelli che hanno attentato con opere, atti od omissioni alle “magnifiche sorti e progressive” delle tante rendite di posizione tutelate  da quelle forze politiche – che si sono molto rafforzate negli ultimi anni, ma che erano presenti sotto mentite spoglie anche nel passato – disposte  a  mettere in gioco il proprio futuro pur di non rinunciare ad un effimero presente.

 

Come tutto ciò ha a che fare con il signor Bolkestein? Perché questo liberale olandese si è iscritto nella storia della Comunità, prendendo posto – a seconda dei punti di vista – nel novero delle occasioni perdute o in quello delle strenue difese di interessi (ben poco) vitali minacciati? La sorte ha voluto che Frits Bolkestein tenesse a battesimo – per normali motivi di ufficio – una proposta di direttiva (varata dalla Commissione nel gennaio 2004) che si proponeva di allargare il mercato interno al settore dei servizi. Si trattava di dare corso non solo ad un impegno previsto dai Trattati (addirittura da quello istitutivo del lontano 1957), ma persino ad un’incombenza assolutamente coerente con le scelte già compiute dall’Unione (rafforzate dall’allora imminente prospettiva dell’allargamento) sul piano delle grandi strategie d’ordine economico. Il mercato dei servizi rappresentava il 70% delle attività economiche europee, deteneva il 68% dell’occupazione complessiva ed era ritenuto in grado di offrire le maggiori opportunità per l’ulteriore crescita dei posti di lavoro nell’ambito di quell’economia della conoscenza che stava alla base del programma di Lisbona 2000 (la grande illusione dell’inizio del terzo millennio). Ma non basta. Era proprio l’esigenza di una maggiore competitività del settore manifatturiero a dipendere sempre più dalla fornitura di servizi moderni e flessibili, dal momento che l’efficacia dei servizi alle imprese costituisce un fattore cruciale nella localizzazione delle multinazionali, mentre le persistenti rigidità tendono a scoraggiare gli investimenti diretti esteri.  Nonostante tali considerazioni, in appena due anni, la prospettiva del mercato interno dei servizi si era talmente logorata, per effetto della marea di ostilità emerse, da trasformarsi in una delle tante “speranze deluse” subite dalla causa dell’Europa unita, nel corso del suo divenire. Eppure, quella scelta non era stata né incauta né improvvisata.

 

Nel sistema politico dell’Unione opera l’antico principio del “natura non facit saltus”. Non solo le svolte, ma anche le decisioni vengono preparate con estrema cautela, secondo un cerimoniale di anni e tenendo conto, con scrupolo certosino applicato alla diplomazia, tanto della “bilancia dei poteri” istituzionali tra gli organi della Ue, quanto dei delicati rapporti politici tra gli Stati, all’interno del Consiglio (al quale spetta in pratica la funzione legislativa primaria) e nel succedersi semestrale delle presidenze. A ripercorrere a ritroso il cammino della proposta di direttiva Bolkestein si arriva al 2000, quando a dicembre (nove mesi dopo la storica riunione del Consiglio a Lisbona) la Commissione definì quella linea di condotta indicata come “Una strategia per il mercato interno dei servizi” che ricevette il pieno sostegno degli Stati membri di allora (i magnifici Quindici), del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale (il Ces) e del Comitato delle regioni.

 

Nei documenti ufficiali quella strategia venne assunta allo scopo di “fare in modo che i servizi possano essere prestati attraverso l’Unione europea con la stessa facilità con cui vengono prestati all’interno di uno Stato membro. Essa si basava essenzialmente – si diceva ancora – su di un approccio orizzontale che attraversa tutti i settori dell’economia legati ai servizi e proponeva una strategia in due fasi: in un primo tempo, un inventario delle difficoltà che impedivano il regolare funzionamento del mercato interno dei servizi e successivamente l’elaborazione di soluzioni adeguate ai problemi identificati, in particolare di uno strumento legislativo trasversale”.

 

Cominciò a questo punto la trafila consueta nelle grandi occasioni, che prese le mosse dalla predisposizione di un Libro verde nel 2003 allo scopo di avviare un ampio processo di consultazione, le cui conclusioni sarebbero poi state raccolte, al solito, in un Libro bianco. Seguirono le relazioni periodiche a partire da quella presentata nel luglio 2002 ad opera della Commissione  (“Lo stato del mercato interno dei servizi”) quale completamento della prima fase con la compilazione “dell’inventario delle frontiere ancora presenti nel mercato interno dei servizi”. Nel novembre del 2002 il Consiglio si pronunciò sulle conclusioni della Commissione, riconoscendo che restava molto da fare per realizzare l’obiettivo, ma confermando che si doveva dare “elevatissima priorità politica all’eliminazione degli ostacoli legislativi e non, ai servizi nel mercato interno in quanto parte dell’obiettivo globale stabilito dal Consiglio europeo di Lisbona di rendere l’economia dell’Unione europea la più dinamica e competitiva del mondo entro il 2010”.  La Commissione fu esortata, quindi, ad accelerare i propri lavori. Nel febbraio 2003 la parola passò al Parlamento, il quale assunse la relazione della Commissione riguardante l’individuazione di “uno strumento orizzontale che garantisca la libera circolazione dei servizi sotto forma di riconoscimento reciproco – promuovendo, se possibile, l’attuazione del riconoscimento automatico-cooperazione amministrativa e, laddove strettamente necessario, armonizzazione”.

Chi è pratico del linguaggio politico-istituzionale europeo avrà sicuramente notato che, nella risoluzione appena citata, il Parlamento esprimeva una certa cautela sottolineando, in particolare, l’esigenza di uniformare ed armonizzare gli aspetti amministrativi, autorizzativi e regolamentari relativi all’insediamento, ai requisiti professionali, ai titoli di studio e quant’altro. Ma la Commissione non ebbe dubbi ed esitazioni. Su impulso del Consiglio europeo di primavera, nel maggio del 2003, il governo della Ue annunciò che prima della fine dell’anno avrebbe presentato “una proposta di direttiva sui servizi nel mercato interno, che definirà un quadro giuridico chiaro ed equilibrato, inteso ad agevolare le condizioni di stabilimento e di prestazione transfrontaliera dei servizi. Essa – proseguiva la Commissione – si baserà sulla combinazione di riconoscimento reciproco, cooperazione amministrativa, armonizzazione ove assolutamente necessario e incoraggiamento dei codici di condotta e delle regole professionali europee”.

Il Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’autunno di quello stesso anno tornò a ribadire l’invito a procedere, purché “con il debito riguardo per l’esigenza di salvaguardare la fornitura e gli scambi di servizi di interesse generale”. Ma ormai il dado era tratto. Nel gennaio 2004 – come abbiamo già ricordato – la Commissione fece propria la proposta di direttiva sui servizi proposta dal commissario Bolkestein, corredandola pochi mesi dopo (a maggio) con la presentazione – sotto forma di comunicazione – del “Libro bianco sui servizi d’interesse generale”.

 

Gli atti delle istituzioni europee sono sempre documenti molto complessi; si diffondono in premesse e motivazioni, in ricapitolazioni dei preliminari e in una lunga elencazione di fonti a cui fare riferimento; sono accompagnati da molte pagine di relazioni. Ma nel caso della ex Bolkestein (è questo il titolo con cui viene ricordata quella proposta di direttiva del 2004) si arrivò ben presto al cuore del problema. “L’obiettivo della proposta – era scritto – è quello di stabilire un quadro giuridico che elimini gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri e che garantisca a prestatori e destinatari dei servizi la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due libertà fondamentali del trattato”. La proposta copriva un’ampia varietà di attività economiche di servizi “con talune eccezioni, come i servizi finanziari”. Da queste premesse si passava all’indicazione di misure soft (semplificazione amministrativa come gli sportelli unici presso i quali il prestatore possa sbrigare le procedure autorizzative, anche per via elettronica; il divieto di procedure eccessivamente restrittive) per giungere al clou che finì per segnare il destino della ex Bolkestein.

 

Al fine di eliminare gli ostacoli, la proposta prevedeva: a) il principio (accompagnato da una serie di deroghe) del paese d’origine, in forza del quale il prestatore era sottoposto unicamente alla legislazione del paese in cui era stabilito. Agli Stati, inoltre, veniva fatto divieto di imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro; b) il diritto dei destinatari di utilizzare servizi di altri Stati membri senza essere ostacolati da misure restrittive o da comportamenti discriminatori di autorità pubbliche o di operatori privati (questo punto chiariva altresì il delicato aspetto del rimborso delle cure sanitarie prestate in un altro Stato membro); c) le forme di assistenza al destinatario utilizzatore di servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro; d) la normativa riguardante il distacco dei lavoratori nell’ambito della prestazione di servizi nonché la ripartizione dei compiti tra Stato membro d’origine e Stato membro di destinazione con  le relative modalità delle procedure di controllo.

 

Dopo il varo della proposta di direttiva, la questione dei servizi rimase al centro dell’iniziativa della Commissione. Tra i tanti, uno degli atti più significativi di quel periodo fu senza alcun dubbio, nel novembre 2004, la presentazione del Rapporto del gruppo di alto livello presieduto da Wim Kok e incaricato di procedere “ad una valutazione indipendente destinata all’esame di metà percorso” della strategia di Lisbona, nonché di definire delle “misure che, nell’insieme, potrebbero costituire una strategia coerente per permettere alle economie europee di conseguire gli obiettivi annunciati a Lisbona”. Uno dei punti forti di tale strategia riguardava il mantenimento degli impegni verso il mercato interno eliminando gli ostacoli alla libera circolazione dei servizi nell’Unione,  realizzando il mercato interno delle industrie di rete (i servizi postali nel 2006, il gas e l’elettricità nel 2007, il trasporto ferroviario nel 2008) e dei servizi finanziari (nel 2005), assicurando un’applicazione giusta ed uniforme delle regole riguardanti la concorrenza e gli aiuti di Stato (riducendo all’1% del Pil questi ultimi, definendo le nuove regole relative alle fusioni e alle Opa ed attualizzando le norme della governance dei mercati pubblici).

 

Veniva man mano a definirsi – anche per fugare le preoccupazioni che intanto stavano montando – l’ambito del mercato interno dei servizi, attraverso una distinzione tra servizi di interesse generale (intendendo per essi quei servizi destinati o meno alla vendita, ritenuti espressione di un interesse generale e sottoposti per tale ragione agli obblighi specifici del servizio pubblico) e servizi di interesse economico generale la cui fornitura è generalmente affidata a determinati operatori, che erano rivolti a soddisfare bisogni generali di cittadini e che le autorità assoggettavano a specifici obblighi di servizio pubblico. Era chiaro, allora, il tentativo di limitare l’apertura al mercato interno, secondo una ragionevole gradualità, alle solo imprese produttrici di servizi di interesse economico, lasciando nei loro recinti protetti le strutture dell’amministrazione pubblica impegnate nel campo del welfare e dei servizi sociali.

 

La Commissione, a questo proposito, perseguiva tre obiettivi fondamentali: a) assicurare un funzionamento efficiente dei servizi di interesse economico generale; b) garantire che non venissero qualificati come servizi di interesse economico generale quelli che si collocavano di fatto nella sfera concorrenziale e non perseguivano effettivamente un obiettivo di interesse generale; c) assicurare che non si verificassero interferenze negative sui mercati aperti alla concorrenza fuori della sfera del servizio pubblico.

 

La posta in gioco riguardava, dunque, la possibilità o meno di finanziare con risorse pubbliche tali servizi d’interesse economico generale senza violare i principi fondamentali della libera concorrenza. “Possono, infatti, insorgere difficoltà – stava scritto in una nota esplicativa della DG Concorrenza della fine del 2002 – se la qualifica di servizi d’interesse generale, ed i vantaggi che ne derivano, sono attribuiti ad attività non definibili come tali, o perché già prestate in maniera soddisfacente da imprese operanti in un contesto di concorrenza o perché non perseguono l’interesse generale. Simili pratiche, in particolare nei settori economici recentemente liberalizzati, possono comportare effetti negativi al livello delle imprese operanti su mercati concorrenziali non soggetti ad obblighi di servizio pubblico”. Le stesse difficoltà, continuava la nota, potevano presentarsi se i vantaggi accordati alle imprese incaricate dei servizi d’interesse economico generale (diritti esclusivi o compensazioni di carattere finanziario) andavano al di là di quanto necessario per il funzionamento del servizio pubblico. In una simile ipotesi, esisteva il rischio che i vantaggi fossero, interamente o parzialmente, sviati a beneficio di attività che esulavano dal servizio pubblico.

 

In sostanza, “per assicurare il successo della liberalizzazione – si continuava – è necessario che le regole del gioco siano definite chiaramente e rispettate da tutti gli operatori. Le imprese che godono, a giusto titolo, di vantaggi legati alla prestazione di servizi pubblici, non devono poter utilizzare tali vantaggi ai fini di una concorrenza sleale nei settori liberalizzati più redditizi”.  Come si nota, i confini non erano tracciati in maniera netta. Pure nel campo della sicurezza sociale, tuttavia, a fianco di veri e propri servizi pubblici e di carattere generale, erano e sono presenti attività economiche meritevoli di essere sottoposte alle regole della libera concorrenza. Nella giurisprudenza della Corte di giustizia furono individuate attività di natura economica sia nel campo della previdenza (i sistemi integrativi facoltativi fondati sulla capitalizzazione), sia nel settore sanitario (trasporto dei malati, prestazioni mediche, fabbricazione di sostanze da utilizzare nell’ambito di una prestazione medica, ecc.). In linea generale, sembrava che la nozione di attività economica comprendesse qualsiasi “attività che consista nell’offrire beni o servizi su un dato mercato e che potrebbe, almeno in via di principio, essere esercitata da un privato a scopo di lucro”.

 

La giurisprudenza comunitaria aveva mostrato, altresì, che la nozione di attività economica era caratterizzata da profili evolutivi, legati in parte alle scelte politiche di ciascun Stato membro, al quale spettava di decidere se trasferire alle imprese determinati compiti tradizionalmente considerati come rientranti nelle prerogative degli Stati. Sempre agli Stati era consentito di determinare le condizioni per creare un mercato per un prodotto o un servizio. Simili interventi facevano sì che quelle in questione si trasformassero in attività economiche e rientrassero nel campo di applicazione della concorrenza. È facile immaginare quali effetti dirompenti avrebbe potuto avere – con la forza di una direttiva – l’estensione di tali principi nel campo della sicurezza sociale, dove era in atto ovunque un processo di integrazione tra pubblico e privato, secondo criteri di sussidiarietà malsana, in quanto il privato era servente del pubblico e ne suppliva le carenze (si pensi al settore della sanità in convenzione e a tanti servizi di natura assistenziale).

 

Nell’Unione si costituì ben presto una coalizione di Stati (il blocco di lingua tedesca stabilmente alleato coi paesi nordici ovvero gli Stati connotati da pesanti modelli di welfare pubblici) che puntava ad escludere l’applicazione della direttiva al comparto dei servizi sociali  tout court, all’insegna dello slogan “i servizi sociali non si toccano” (e quindi gli Stati possono conferire finanziamenti senza compensazioni anche nel caso di attività indubbiamente di carattere economico purché collegate coi servizi sociali), salvo fare spazio alle ONG, alle quali era riconosciuto il merito di non agire secondo regole di mercato, e alle organizzazioni sindacali, che difendevano lo status quo anche a livello europeo.

 

Nonostante l’esistenza di un largo consenso sulla necessità e i vantaggi di un mercato unico dei servizi, in molti paesi – dopo l’allargamento ad Est nel maggio del 2004 – si era materializzato un altro elemento di preoccupazione in molti paesi membri nei confronti della proposta di direttiva Bolkestein, in quanto le innovazioni proposte erano accusate di compromettere la tenuta del modello europeo accrescendo i rischi di “dumping sociale” all’interno dell’Unione allargata. Le critiche cominciarono a concentrarsi sul principio – “architrave” della direttiva – del paese d’origine, in forza del quale il prestatore di servizi che avesse scelto di offrire temporaneamente le sue prestazioni in un altro paese dell’Unione sarebbe stato tenuto a seguire le regole del paese di provenienza e non quelle vigenti nel paese di destinazione del servizio. Il che avrebbe comportato per l’impresa straniera (e in particolare proveniente da un paese nuovo entrato) certamente la possibilità di sottrarsi a pratiche e ad autorizzazioni amministrative e a requisiti giuridici più severi di quelli applicati nel paese d’origine.

 

A torto o a ragione, si temevano, però, anche rilevanti conseguenze sul piano del mercato del lavoro, scatenando una competizione al ribasso nelle condizioni di tutela dei lavoratori a causa del dumping dei lavoratori “venuti dal freddo”. In verità, relativamente al mercato del lavoro, la proposta Bolkestein faceva riferimento ad una direttiva vigente dal 1996 (n. 96/71/CE) la quale stabiliva che i lavoratori temporaneamente distaccati in un altro paese Ue dovessero godere delle medesime condizioni lavorative riconosciute ai colleghi della nazione di destinazione.  Tali condizioni riguardavano – a prescindere dalla fonte legislativa o contrattuale – specificamente istituti come “l’applicazione del salario minimo, gli orari di lavoro e i periodi minimi di riposo, le condizioni di sicurezza e salute sul posto di lavoro, la protezione dei lavoratori interinali” oltre ad alcune norme anti-discriminatorie. Di conseguenza, un’impresa polacca che avesse voluto prestare temporaneamente i propri servizi in Italia o in Francia portandosi appresso i propri dipendenti, avrebbe dovuto assicurare loro le stesse condizioni lavorative, incluso il salario minimo, applicabili ai lavoratori italiani o francesi.

 

 

L’immagine dell’idraulico polacco, in libera circolazione nella banlieu parigina – che ossessionò il sonno dei francesi tanto da indurli a bocciare la nuova Costituzione europea – era dunque solo la proiezione di una cattiva coscienza. Tanto più che, a causa delle preoccupazioni diffuse a sproposito in gran parte dei paesi dell’Europa “sazia e disperata”, la direttiva Bolkestein non venne approvata dal Consiglio nel marzo del 2005 (Daniel Gros definì questa decisione come “un colpo potente e forse fatale inferto all’Agenda di Lisbona”). Eppure, presentando, poche settimane prima, il programma della Commissione da lui presieduta, concernente la revisione della strategia di Lisbona e la nuova Agenda sociale, Josè Manuel Barroso aveva nuovamente magnificato gli effetti della creazione di un mercato unico dei servizi (un incremento a medio termine dello 0,6% del Pil e dello 0,3% del tasso d’occupazione) e dell’integrazione dei mercati finanziari (una riduzione, sempre a medio termine, del costo dei finanziamenti per le imprese di circa lo 0,5% che avrebbe potuto trascinare un aumento dell’1,1% del Pil e dello 0,55 del tasso d’impiego a lungo termine).

 

Il Consiglio aveva incaricato il Gruppo “Competitività e crescita” per preparare la “prima lettura completa” della proposta di direttiva relativa ai servizi nel mercato interno, allo scopo di definirne meglio il campo d’applicazione. E in quel contesto gli Stati membri avevano assunto una posizione prudente, ma interlocutoria. A fine maggio, però, venne lo shock del referendum francese con una secca bocciatura della nuova Costituzione europea, faticosamente condotta in porto dall’abile presidenza irlandese. Pochi giorni dopo ci fu la replica referendaria olandese. Tutti gli analisti concordarono nel ritenere che quel voluminoso digesto – messo a punto dal fior fiore dell’eurocrazia e contenente, in oltre 400 articoli, tutto quanto il sapere umano, fino a quel momento, aveva elaborato e appeso nella galleria dei diritti – non avesse alcuna responsabilità nella grave crisi aperta nell’Unione. Alla base di quell’evento stava – si disse – un crescente desencanto delle opinioni pubbliche sul presente e sulla prospettiva dell’Europa accusata di deviazionismo liberista e, quindi, di assicurare meno tutele – col rigore finanziario sancito a Maastricht – di quelle fornite dai più generosi Stati nazionali. In questi casi, si finisce sempre per cercare un emblema da abbattere.

 

Nel 2005 toccò alla proposta di direttiva ex Bolkestein (intanto il commissario era diventato un privato cittadino) trasformarsi nel parafulmine nella tempesta antiliberista, scoppiata nel cuore dell’Europa, in difesa degli irrinunciabili valori del modello sociale minacciato dallo spettro dell’idraulico polacco. Del resto, in quei mesi capitava spesso (poi questa cattiva abitudine è diventata comune e ricorrente) che i governi nazionali – per assolvere se stessi – cercassero di attribuire all’Europa la responsabilità tanto delle difficoltà reali quanto delle angosce immaginarie.

 

La crisi della ex Bolkestein era già aperta quando Jacques Chirac (anche in politica esistono i Maramaldi pronti ad uccidere chi è già morto di suo) pose il problema, nel Consiglio europeo, di un’ampia riconsiderazione della direttiva. La presidenza di turno (affidata al Lussemburgo) non aveva una forza politica adeguata per fronteggiare eventi tanto critici. Lo stesso Barroso preferì defilarsi e “girare” al Parlamento la questione del mercato dei servizi. Le Istituzioni dell’Unione tornarono a “rammendare le solite calze” del bilancio comunitario, mostrandosi scandalizzate quando Tony Blair “mise i piedi nel piatto” respingendo le proposte tran tran avanzate dalla presidenza lussemburghese.

 

Un barlume di luce e di speranza venne proprio dalla presidenza inglese: il discorso di insediamento del premier laburista (altro che Brexit!) fu certamente una delle espressioni più alte della cultura europeista. Ma il continuismo finì per prevalere al cospetto delle esigenze superiori della cassa.

 

E la ex Bolkestein? Il suo destino era ormai segnato. Il sacrificio doveva essere consumato fino in fondo: Bolkestein delendam esse. Intanto, il 7 settembre del 2005, il Parlamento e il Consiglio dell’Unione avevano varato la direttiva sul riconoscimento delle qualifiche professionali, rivolta a fornire “la garanzia…a coloro che hanno acquisito una qualifica professionale in uno Stato membro, di accedere alla stessa  professione e di esercitarla in un altro Stato membro con gli stessi diritti dei cittadini di quest’ultimo”, pur senza esonerare “il professionista migrante dal rispetto di eventuali condizioni di esercizio non discriminatorie che potrebbero essere imposte dallo Stato membro in questione, purché obiettivamente giustificate e proporzionate”. In sostanza, la ex Bolkestein aveva perso un pezzo. Le organizzazioni dei liberi professionisti erano riuscite nel loro intento: liberarsi dal contesto della direttiva dei servizi e giocarsi in proprio la difesa degli interessi delle lobbies nazionali.  

 

Il “giorno del giudizio” fu 16 febbraio 2006. Dopo la mediazione intervenuta tra i due grandi partiti europei (popolari e socialisti), il Parlamento di Strasburgo approvò – in prima lettura nel quadro della procedura di codecisione – il testo della delibera sui servizi nel mercato interno. Le proclamazioni suonavano solenni: “l’eliminazione degli ostacoli allo sviluppo del settore di servizi tra Stati membri – si leggeva – costituisce uno strumento essenziale per rafforzare l’integrazione fra i popoli europei e per promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e duraturo”. E ancora: “una maggiore competitività del mercato dei servizi è essenziale per promuovere la crescita economica e creare posti di lavoro nella Ue”. Ma non bastava ancora: “la frammentazione del mercato interno si ripercuote negativamente sul complesso dell’economia europea e, in particolare, sulla competitività delle PMI e la circolazione dei lavoratori (sic! ndr) ed impedisce ai consumatori di avere accesso ad una maggiore scelta di servizi a prezzi competitivi”. E quindi “è importante realizzare un mercato unico dei servizi, mantenendo un equilibrio tra apertura dei mercati, servizi pubblici nonché diritti sociali e del consumatore”. Parole, parole, parole.

 

Nel testo della direttiva, cominciava poi l’elenco delle esclusioni (i servizi di assistenza sociale di mano pubblica) e delle deroghe (alloggi popolari; servizi di cura; servizi di interesse generale che sono prestati e definiti dagli Stati membri a titolo degli obblighi di tutela del pubblico interesse; servizi finanziari, pensionistici individuali, bancari, di consulenza; agenzie di lavoro interinale; servizi di trasporto, taxi compresi; lotterie; attività sportive senza scopo di lucro e quant’altro).

Venivano, poi, facilitate talune procedure amministrative (sportello unico, limitazione degli obblighi di autorizzazione preliminare e accesso alle informazioni).  Restavano escluse – lo erano fin dall’inizio – le normative riguardanti il mercato del lavoro (“i prestatori di servizi debbono conformarsi alle condizioni di occupazione applicabili, in alcuni settori elencati, nello Stato membro in cui viene prestato il servizio”). Ma la bussola della direttiva era la seguente: “È opportuno prevedere una combinazione equilibrata di misure che riguardano l’armonizzazione mirata, la cooperazione amministrativa, le norme del paese d’origine e che promuovono l’elaborazione di codici di condotta su determinate questioni. Questo coordinamento delle legislazioni nazionali – proseguiva il testo approvato – deve garantire un grado elevato d’integrazione giuridica comunitaria ed un livello elevato di tutela degli obiettivi d’interesse generale, in particolare la tutela dei consumatori, dell’ambiente, della pubblica sicurezza e della sanità pubblica nonché il rispetto del diritto del lavoro, fondamentali per stabilire la fiducia reciproca tra Stati membri”.

 

Queste ultime frasi sono estremamente significative del “comune sentire” dell’establishment dell’Unione dei Quindici: i Paesi che si ritenevano “più uguali” degli altri, essendo le vestali dei valori del modello sociale. Il ragionamento era semplice: i Dieci, nuovi entrati, dovevano crescere per mettersi in grado di erogare prestazioni e servizi di welfare adeguati ed armonizzati il più possibile con quelli delle nazioni benestanti. I paesi dell’Est europeo, dal momento del loro ingresso, furono sottoposti all’obbligo di presentare rapporti e piani sull’inclusione sociale, sotto lo sguardo severo e vigilante dei confratelli maggiori, sempre pronti a sbattere  in faccia ai novizi (che ancora erano impegnati a smaltire i disastri del socialismo reale) raffinate tutele ed eccelsi diritti (che neppure i ‘’magnifici Quindici’’ erano più in grado di preservare se non a prezzo di un colossale indebitamento a scapito delle generazioni future).  Il fatto era che questi paesi si sarebbero sviluppati più in fretta, di quanto già non facessero, soltanto se avessero potuto mettere a frutto il loro principale “valore aggiunto”: la voglia di fare, la disponibilità a lavorare a condizioni più vantaggiose. In altre parole, proprio quel “dumping sociale” che nella parte occidentale dell’Unione era visto come una maledizione biblica. Era veramente singolare che i grandi soggetti collettivi – i sindacati innanzi tutto – considerassero meritevoli di tutela prioritaria gli interessi dei paesi e dei settori più forti, anche a costo di condannare ad una prospettiva più difficile quelli più deboli. È per queste ragioni che le opinioni pubbliche dell’Est europeo vissero la vicenda – un po’ squallida – della ex Bolkestein come un rifiuto, culturale e politico, nei confronti dei loro problemi, aspettative e speranze.

 

Ma perché raccontare questa storia sepolta nella memoria dell’Europa che fu (e che non era poi tanto coraggiosa)?  È sempre opportuno conoscere l’origine dei problemi di cui si discute. Poi, l’itinerario della Direttiva (ex) Bolkestein ci porta inevitabilmente ad una triste considerazione: se l’Unione, pur nei suoi momenti migliori, non riuscì ad integrare maggiormente le proprie economie perché meravigliarsi se oggi non è in grado neppure di avere ragione delle pretese dei bagnini e dei venditori ambulanti? Forse è stata anche la mancanza di coraggio dei tempi felici a determinare il declino dell’ideale europeo negli anni difficili che stiamo vivendo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

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