Bollettino ADAPT 6 aprile 2020, n. 14
Da bambino ricordo che mio padre, reduce dalla Seconda guerra mondiale, era rimasto tanto colpito da quella esperienza che, a mattino, quando si radeva, recitava a memoria interi pezzi di “bollettini di guerra” che davano conto delle sconfitte subite dall’esercito italiano. Nel declamarle usava lo stesso tono che a suo tempo aveva sentito dal lettore dell’EIAR. Ricordo soprattutto un incipit: “Un’intera Armata, la X, è stata travolta, con uomini e munizioni…”. Queste parole mi sono tornate in mente leggendo l’ultimo commento del Centro Studi della Confindustria (CSC) del 2 aprile scorso. ‘’L’impatto del Covid-19 si è abbattuto sul sistema produttivo italiano e internazionale in maniera improvvisa, con una forza distruttiva e in maniera diffusa. In Italia la caduta dell’attività stimata per marzo (-16,6%), se confermata dall’Istat, rappresenterebbe il più ampio calo mensile da quando sono disponibili le serie storiche di produzione industriale (1960) e porterebbe i livelli su quelli di marzo 1978.
L’arretramento stimato nel primo trimestre 2020 (-5,4% sul quarto 2019) sarebbe il più forte dal primo trimestre del 2009, quando l’attività era scesa dell’11,1% congiunturale, nel pieno della grande crisi finanziaria internazionale indotta dallo scoppio della bolla dei mutui subprime in USA. Oggi siamo nel pieno di una crisi sanitaria – prosegue la nota- che sta provocando sull’economia reale un impatto drammatico, non solo in Italia.Le misure di contenimento e contrasto introdotte per limitare la diffusione del Covid-19, hanno determinato un doppio shock negativo: dal lato della domanda, con il rinvio delle decisioni di spesa dei consumatori, la chiusura di numerose attività commerciali (nei settori della ristorazione, alloggi, trasporti, attività culturali e di intrattenimento) e l’azzeramento dei flussi turistici; dal lato dell’offerta, con il blocco di numerose attività produttive, sia per decreto sia per consentire la sanificazione dei luoghi di lavoro delle imprese funzionanti. Questa combinazione di fattori ha realizzato lo scenario peggiore possibile, facendo avvitare l’economia italiana in una recessione che sarà profonda e la cui durata dipenderà dai tempi di uscita dall’emergenza”. La questione si riduce alla combinazione di due parole che si congiungono alla parola crisi: domanda e offerta. E proprio qui sta il grande interrogativo di questa fase drammatica.
Itinerari previdenziali ha previsto uno scenario nel quale saranno verosimilmente sacrificati soprattutto i rapporti di lavoro più elastici, regolamentati mediante contratti a tempo determinato, part-time e in somministrazione, piuttosto diffusi peraltro proprio nelle filiere più indiziate come a rischio di default, come ad esempio turismo, ricezione, ristorazione, automotive o trasporto aereo: vale a dire, un totale di almeno 1,5 milioni di posti di lavoro a rischio molto concreto. Da molte parti – soprattutto dal mondo imprenditoriale (si veda la bella intervista di Carlo Bonomi al Foglio) – si insiste per avviare al più presto una ‘’ripartenza’’, certamente graduale, con adeguate misure di sicurezza per i lavoratori e con la messa a disposizione della liquidità di cui le imprese hanno bisogno. Secondo il CSC, il 57% delle attività industriali è in quarantena a partire dal 23 marzo (48% della produzione); il restante 43% di imprese ha continuato a lavorare a un ritmo molto ridotto, con poche eccezioni (alimentari e farmaceutico), a causa della più bassa domanda, delle difficoltà della logistica e del parziale blocco delle attività nei principali partner commerciali dove, con ritardo rispetto all’Italia, sono state introdotte misure di contrasto al Covid-19. Ciò si sarebbe tradotto in cancellazioni di ordini e in blocco ulteriore delle filiere internazionali.
Se è vero che occorre rompere al più presto il cupio dissolvi in cui si dibatte l’Italia (in anticipo sul resto del mondo), è altrettanto vero che la transizione è condizionata da un miglioramento della crisi sanitaria e dall’accelerazione di un quadro più adeguato di terapie. Ma soprattutto occorre una svolta sul piano politico e culturale, un vero e proprio cambio di linea: passare dalla strategia del contenimento a quella della convivenza con il nuovo virus, sia pure la con le misure il più possibile garantite sul piano sanitario. È lo stesso passaggio cruciale descritto da Alessandro Manzoni nella metafora del naufrago che esita a lasciare i rami e le frasche a cui è precariamente attaccato per affidarsi ad un ausilio più stabile e sicuro. Tuttavia, sia pure auspicando che l’economia riparta al traino dell’industria manifatturiera, magari a scartamento ridotto, è troppo semplice pensare che basti la “mano invisibile” del mercato a rimettere le cose a posto. Per un motivo molto banale: esiste ancora un mercato, senza frontiere, in cui i beni prodotti possono essere venduti? Esiste ancora una competizione internazionale? E’ vero, molti Paesi non hanno seguito la via dell’Italia e hanno fatto il possibile per non fermare la produzione, ma la domanda non dà segni di ripresa (si pensi al vorticoso crollo dell’automotive), le filiere produttive sono sconvolte e non è semplice ricostruirne di nuove. I grandi mercati o non sono ancora ripartiti (come la Cina) o sono travolti dalla recessione (gli Usa). L’Unione europea e la Bce hanno reagito tempestivamente nel fronteggiare il primum vivere, sia con la sospensione delle regole di bilancio, sia con la messa a disposizione di ingenti risorse (al punto da lasciare a bocca aperta e senza argomenti plausibili i “sovranisti”). Se la ripartenza ci deve essere, nessun Paese può farcela da solo, con proprie scelte autonome. Si è evocato da molte parti un nuovo Piano Marshall. Ma a rimettere in piedi in pochi anni l’Italia e l’Europa furono scelte molto nette sul versante della riconversione di un apparato produttivo impigliato nell’economia di guerra. La strategia che ci portò fuori della crisi fu un ri-orientamento delle scelte produttive sui beni di consumo durevoli che “tiravano” sui mercati internazionali nell’immediato dopoguerra. Ebbe origine da quelle scelte (che erano poi il risvolto economico della collocazione politica nel sistema occidentale) il primato delle esportazioni nella tenuta del Paese anche nei momenti difficili.
La nuova Europa non è stata concepita a Ventotene in base ad un ideale politico, ma con la scelta lungimirante della Ceca ovvero di mettere in comune quelle risorse del carbone e dell’acciaio che erano state le cause di due sanguinose guerre mondiali. I passi in avanti delle istituzioni politiche hanno camminato sull’onda dei processi economici, facendosi strada nei momenti di crescita (si prenda ad esempio il trattato di Maastricht e Lisbona 2000) e trovandosi in difficoltà nelle fasi di crisi. Senza un progetto di rinascita del Continente, non si andrà da nessuna parte. Faremo la fine delle grandi civiltà del passato (gli Inca e i Maya) che si estinsero quando gli invasori europei diffusero tra di loro dei virus sconosciuti.
Membro del Comitato scientifico ADAPT