Bollettino ADAPT 6 luglio 2020, n. 27
L’azienda Italia è ripartita ma – come si diceva una volta – il “motore batte in testa”. Per limitarsi ad un giudizio sintetico (durante il lockdown vi sono state difficoltà anche nella raccolta dei dati da parte delle istituzioni competenti) potremmo dire che, grazie alla riapertura, la struttura produttiva ha rallentato la caduta, ma è ancora lontana dal recupero dei livelli pre-Covid (che del resto non erano per nulla incoraggianti). Queste considerazioni si basano sull’Indagine rapida del Centro Studi della Confindustria (CSC) sulla produzione industriale (1° luglio) e sulla pubblicazione (2 luglio) di “Occupati e disoccupati a maggio 2020” dell’Istat. ll CSC rileva una diminuzione della produzione industriale di poco meno del 19% in giugno sullo stesso mese dell’anno precedente e del 29,1% in maggio sui dodici mesi. In termini congiunturali, ovvero rispetto al mese precedente, si è avuto, tuttavia, un rimbalzo del 3,9% in giugno, dopo +32,1% rilevato in maggio (in conseguenza della fine del lockdown). Gli ordini in volume sono diminuiti del 34,6% annuo in giugno (+6,3% sul mese precedente) e del 48,5% in maggio (+13,7% su aprile).
Tuttavia, fa notare il CSC, a partire da maggio, dopo la riapertura delle attività industriali e dei servizi, l’aumento della domanda – benché ancora modesto – ha attivato un recupero dell’offerta che nei due mesi della rilevazione è stato significativo in termini percentuali. I livelli, invece, restano notevolmente depressi e lontani da quelli pre-Covid (-21,4% l’indice di produzione rispetto a gennaio). Nel secondo trimestre l’attività nell’industria è stimata in calo del 21,6%, in netto peggioramento rispetto all’andamento registrato nel primo (-8,4% sul quarto trimestre 2019). I dati dell’Indagine Rapida hanno evidenziato una significativa differenza della performance per tipologia di impresa: quelle con un’elevata propensione all’export (quota di fatturato esportato maggiore del 60%) hanno avuto un recupero più lento rispetto a quelle più orientate sul mercato interno. Tale tendenza è spiegata, secondo il CSC, da come il virus si è diffuso nel resto del mondo, provocando un ridimensionamento progressivo della domanda di prodotti italiani, che, secondo una tempistica casuale e imprevista, si è interrotta o si è notevolmente ridimensionata nei partner commerciali che attraversavano la fase acuta della pandemia (in particolare USA e Sud America). Si tratta di un’instabilità dei mercati che è preoccupante, essendo l’export il motore dell’economia italiana anche nei periodi di crisi.
Per quanto riguarda la domanda interna, il recupero dovuto alla riapertura delle attività è soffocato da un’estrema incertezza sui tempi di uscita dalla crisi sanitaria. I dati recenti sono positivi, nonostante i timori legati alle riaperture; tuttavia, l’esplosione di alcuni focolai in diverse regioni e nuove misure restrittive nei Paesi che erano già stati duramente colpiti dal virus, accrescono la paura di un possibile peggioramento della crisi sanitaria dopo l’estate. Questo accentua negli operatori economici (famiglie e imprese) un atteggiamento prudenziale nella gestione dei bilanci, già evidente sin dal primo trimestre, che continua a frenare consumi e investimenti. Come vedremo si sono aggiunte notevoli preoccupazioni sui trend del mercato del lavoro, evidenziate soprattutto dall’esplosione dei tassi di inattività e dalla crescita di quelli della disoccupazione. Di converso, continua ad aumentare il risparmio precauzionale delle famiglie: una tendenza confermata dai recenti dati ISTAT con un incremento di quasi 5 punti nel primo trimestre fino a raggiungere il 12,5% del reddito disponibile. Il tasso di investimento delle imprese – misurato dalla quota di investimenti fissi sul valore aggiunto – è sceso al 20,9% (dal 21,3% nel quarto trimestre 2019).
I recenti dati sull’andamento della fiducia, seppure in graduale miglioramento, mostrano un generale pessimismo (specie tra le imprese dei servizi), nonostante i numerosi provvedimenti finora introdotti. L’indice di fiducia delle famiglie in giugno è ancora 10 punti inferiore rispetto a quello di gennaio; seppure i giudizi sui bilanci familiari non siano molto negativi, le intenzioni di acquisto restano ancora depresse. Tra le imprese, la fiducia è di 33 punti più bassa rispetto a gennaio (-47,4 nei servizi di mercato); nel manifatturiero migliorano i giudizi sulla produzione, ma aumentano ancora le scorte: questo può essere dovuto a una dinamica della domanda inferiore rispetto a quella attesa dagli imprenditori (sulla base della quale è stata programmata la produzione) oppure alla cancellazione di ordini. In ogni caso non è un buon segnale sugli andamenti futuri della produzione. In questa fase, la fiducia di imprese e famiglie rappresenta, sostiene il CSC, il fattore determinante per la ripartenza. In assenza di un miglioramento delle condizioni interne e internazionali che alimentano tale fiducia, l’efficacia delle politiche di sostegno alla domanda rischia di essere molto limitata e di aumentare ulteriormente il risparmio, vanificando in parte gli sforzi fatti finora. Quest’ultima considerazione è molto importante perché mette in evidenza i limiti delle politiche di sostegno dei redditi che sono stati fino ad ora (si veda la moltiplicazione dei bonus) al centro dei provvedimenti del governo. Quanto all’occupazione – secondo l’Istat – a maggio rispetto a marzo e aprile, la diminuzione è più contenuta e si osserva un recupero consistente di ore lavorate. Ciononostante, da febbraio 2020 il livello di occupazione è diminuito di oltre mezzo milione di unità e le persone in cerca di lavoro di quasi 400 mila, a fronte di un aumento degli inattivi di quasi 900 mila unità. Rispetto ad aprile, per le donne, a maggio, diminuiscono il tasso di occupazione (-0,4 punti percentuali) e quello d’inattività (-0,8 punti), mentre torna a crescere quello di disoccupazione (+2,0 punti). La stessa dinamica, seppur lievemente più contenuta, si osserva tra gli uomini: calano il tasso di occupazione (-0,1 punti) e quello d’inattività (-0,4 punti), aumenta invece il tasso di disoccupazione (+0,5 punti). Su base annua, il tasso di occupazione scende di 1,5 punti tra gli uomini e di 1,4 punti tra le donne; quello di disoccupazione cala rispettivamente di 2,3 e di 2,0 punti, mentre il tasso di inattività cresce di 3,5 punti per gli uomini e di 2,8 punti per le donne. Nei dodici mesi il calo degli occupati è dovuto alla diminuzione dei dipendenti a termine (-18,9%, -592mila) e degli indipendenti (-3,8%, -204 mila); i dipendenti permanenti risultano invece ancora in crescita (+1,2%, pari a +183 mila). Emerge così ciò che non solo era temuto, ma addirittura previsto: saranno i dipendenti con contratto a tempo determinato a perdere il posto di lavoro anche per effetto dei vincoli introdotti dal c.d. decreto dignità riguardanti l’obbligo delle “condizionalità” per le proroghe dopo i primi 12 mesi.
La sospensione prevista fino ad agosto non tranquillizza le aziende (che sarebbero sanzionate con la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato) a fronte della rivendicazione dei sindacati di prorogare la cig e soprattutto il blocco dei licenziamenti individuali per motivi economici e collettivi per i mesi rimanenti dell’anno in corso. È quest’ultima una misura che viene affrontata dal governo con troppa leggerezza; più si prosegue su questa strada più diventerà difficile tornare alla normalità, col rischio di ingessare le aziende con un “imponibile di manodopera” e con un carico di posti di lavoro ormai divenuti finti, mentre altri settori – che non solo non hanno subito la crisi, ma accresciuto il fatturato – non riescono a soddisfare la loro domanda di lavoro. Da questa sommaria rappresentazione emerge un dato inconfutabile – che si iscrive nel dibattito politico aperto sui capisaldi del programma dell’Unione (Mes, Sure, Bei, Recovery fund): l’Italia non ce la può fare da sola.
Membro del Comitato scientifico ADAPT