Bollettino ADAPT 6 aprile 2021, n. 13
Ottaviano Del Turco è stato uno dei più importanti dirigenti sindacali nella seconda metà del secolo scorso. Socialista, entrato in Cgil all’inizio del 1969 come funzionario della Fiom e ne uscì nel 1993 come segretario generale aggiunto (nell’ordine di Luciano Lama, di Antonio Pizzinato e di Bruno Trentin). Successivamente, è stato segretario del Psi, parlamentare, presidente della Commissione bicamerale Antimafia, ministro delle Finanze, eletto al Parlamento europeo e presidente di Commissione, tra i fondatori del Pd prima di strappare al centro destra il governo della regione Abruzzo a capo di una coalizione di centrosinistra. Nel ruolo di presidente della sua regione, dopo una lunga e tormenta vicenda processuale ultra decennale (ad ogni ‘’passaggio’’ cadevano una ad una le imputazioni più gravi), Del Turco è stato condannato in via definitiva a tre anni e undici mesi di reclusione. Non è questa la sede per discutere delle accuse, dei processi e della condanna.
Il caso Del Turco è venuto più volte alla ribalta negli ultimi mesi a seguito della delibera del Consiglio di Presidenza del Senato di togliergli il vitalizio (usiamo ancora questa definizione che come vedremo non si riferisce più a nulla) maturato durante la permanenza in Parlamento. Il provvedimento di revoca è stato contrassegnato da proteste di carattere umanitario perché Del Turco è gravemente malato, non più compos sui, nè in grado di svolgere le più elementari cure di sé stesso. Questa condizione di salute ha determinato nel Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama un riesame della vicenda – in regime di sospensione provvisoria della delibera poi revocata- che dovrebbe concludersi – in un senso e nell’altro – nella riunione del Consiglio stesso, convocata per il prossimo 8 aprile. Ovviamente, per le materie di cui si occupa il Bollettino, non può essere oggetto di quest’articolo nemmeno il caso umano. Può essere invece pertinente ed interessante l’aspetto di carattere previdenziale dell’intera vicenda che non riguarda solo Del Turco ma tutti gli ex parlamentari i cui curricula penali rientrino nei casi previsti dalla c.d. delibera Pietro Grasso (il presidente del Senato nella XVII legislatura) poi recepita anche dalla presidenza della Camera. Ecco il testo della delibera (7 maggio 2015) nella versione della Camera: “E’ disposta la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali erogati a titolo di assegno vitalizio o pensione a favore dei deputati cessati dal mandato che abbiano riportato, anche attraverso” il patteggiamento a) condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale (mafia e terrorismo) e dagli articoli da 314 a 322-bis, 325 e 326 del codice penale (reati contro la P.A. come peculato e concussione); b) “condanne definitive con pene superiori a due anni di reclusione per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a sei anni, così determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale”.
Il caso Del Turco è incluso nella fattispecie di cui alla lettera a); anche se – lo diciamo per inciso senza sviare dal tema dell’articolo – l’ex sindacalista fu ritenuto colpevole di “induzione indebita a dare o promettere utilità” un reato introdotto nel 2012 dalla Legge Severino. Purtroppo è inutile criticare le motivazioni di una sentenza passata in giudicato. Visto che la norma introdotta dalla delibera Grasso-Boldrini (assunta in regime di autodichia) è tuttora vigente vale la pena di denunciare quelli che, ad avviso di chi scrive, sembrano profili di illegittimità. Sono confortato nella mia opinione da un parere pro vertitate del presidente emerito della Consulta Valerio Onida dal titolo ‘’Sulla legittimità costituzionale di misure di revoca del vitalizio ad ex parlamentari condannati per determinati reati’’ (18 marzo 2015). Onida, in via preliminare, riteneva necessario porsi la questione della ratio di un provvedimento siffatto, domandandosi se la revoca o la sospensione: a) fossero un’ulteriore sanzione per il reato commesso ad esso conseguente; b) riguardassero un beneficio concesso unilateralmente e “graziosamente” dallo Stato la cui motivazione fosse venuta a mancare nel momento in cui cessò l’onorabilità del beneficiario; c) derivassero da una nuova considerazione normativa delle motivazioni.
Il parere poi passava in rassegna ognuna di queste causali con dovizia di argomenti (il parere era di ben 19 pagine) arrivando alla seguente conclusione per ciascuna di esse. Le pene accessorie devono essere disposte dall’autorità giudiziaria con la sentenza di condanna, ma tali sanzioni non possono riguardare i trattamenti di natura previdenziale obbligatoria, ma solo eventuali benefici concessi unilateralmente per motivi che vengono meno in caso di sopraggiunta indegnità. Nel parere, poi, vi era una approfondita disamina delle caratteristiche del vitalizio e della sua equiparabilità – pure nella differenza di origine e di funzione – ad un trattamento di pensione. Il che – in quel contesto normativo – ricopriva un significato dirimente proprio per escludere che si trattasse di una sorta di ‘’benemerenza gentilmente concessa’’ e quindi revocabile. A noi parere, è indubbio che la natura previdenziale della prestazione sia approdata a riferimenti più sicuri dopo la riforma dei vitalizi degli ex parlamentari (con delibere di ambedue le presidenze nel 2018), ricalcolati con un metodo contributivo (benché discutibile nei criteri adottati) proprio per rafforzarne – si disse – il carattere di pensione. La giurisprudenza consolidata ha escluso che persino le prestazioni di carattere assistenziale siano revocabili a fronte di certi reati, anche di particolare gravità. È veramente singolare che una sanzione siffatta venga comminata nel caso di un trattamento pensionistico obbligatorio in cui – in una qualche misura – vi sia un sinallagma tra la prestazione e la contribuzione versata, adottato sia pure con qualche forzatura proprio per eliminare il carattere di ‘’concessione privilegiata’’ per lo status di parlamentare. Così, la trasformazione in senso previdenziale del carattere della prestazione – soggetta alla revoca – disposta nel 2018, potrebbe costituire un motivo per rivedere la delibera del 2015, in nome dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Membro del Comitato scientifico ADAPT