Bollettino ADAPT 14 dicembre 2020, n. 46
Lo scorso 10 dicembre la Corte d’appello di Milano ha confermato l’assoluzione per Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell’Ilva di Taranto, dalle accuse di bancarotta per il crac della holding Riva Fire che controllava il gruppo siderurgico. Malgrado il ricorso in appello della procura, è stato il sostituto procuratore generale Celestina Gravina a sollecitare la conferma dell’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Come hanno spiegato in coro le agenzie, commentando quella sentenza, gli altri componenti della famiglia Riva, Adriano e Nicola, erano già usciti dal procedimento patteggiando la pena rispettivamente a due anni e sei mesi e a tre anni di carcere dopo che un precedente tentativo di patteggiamento era stato rigettato dal Gup perché la pena proposta era “non congrua” e dunque troppo bassa.
Fabio Riva, ex vicepresidente dell’Ilva di Taranto, era dunque l’unico andato a processo perché il Gup aveva rigettato un tentativo di patteggiamento perché la pena proposta era “non congrua” perché ritenuta troppo bassa. Fabio allora aveva scelto il rito abbreviato dove – come abbiamo detto – è stato assolto in primo grado e in appello con formula piena. Il giorno dopo con la sottoscrizione dell’accordo tra Invitalia (la società del Mef) e Mittal, la multinazionale subentrata nel gruppo nel 2018 si è compiuta la “svolta all’indietro”: lo Stato è rientrato nel capitale sociale del gruppo al 50%, pronto ad acquisirne il controllo a partire dal 2022. In fondo è un ritorno al piccolo mondo antico delle PPSS. Come ha ricordato Marco Bentivogli in un articolo sul Foglio: ‘’Nei suoi 55 anni di storia, comprensiva del siderurgico di Taranto, solo per 17 anni Ilva è stata privata. Le privatizzazioni del centrosinistra degli anni ‘90 dimenticarono le regole di responsabilità sociale e di partecipazione dei lavoratori. Ma i nostalgici non ricordano come la siderurgia pubblica lasciò il campo, regalandoci ripiegamento industriale e occupazionale, disastri ambientali e spesso corruzione’’. Col rientro di Pantalone nell’acciaio di Stato è finita la persecuzione a cui è stata sottoposta dal 2012 ad oggi quello che fu il più importante stabilimento siderurgico d’Europa? Niente affatto: la Regione Puglia e il Comune di Taranto continuano ad essere contrari e chiedono, tra gli altri “sogni nel cassetto”, la chiusura dell’area a caldo ovvero una sorta di “killing me sfotly” dell’acciaieria, perché verrebbe a mancare il ciclo integrale della produzione. Il calvario del gruppo è noto.
Nel 2012 venne praticamente espropriato, sequestrato e commissariato. Sulle sue spoglie si è sperimentato – senza alcun ritegno – quel processo di distorsione istituzione per cui – ha scritto Filippo Sgubbi nel saggio “Il diritto penale totale: punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi” (Il Mulino) –” “la decisione giurisprudenziale diventa una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente”. “Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubba – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari”.
La chiave di volta delle violenze perpetrate ai danni di quell’unità produttiva sta proprio nel seguente passaggio: l’assunzione di parametri discrezionali per valutare l’inscindibile e complesso rapporto tra la produzione e l’ambiente, soprattutto nei settori che trasformano il ferro in colata incandescente all’interno di ciclopici altiforni giganteschi. E’ la legge che, attraverso le autorità e le istituzioni dedicate, stabilisce quali sono gli standard di sicurezza che un’impresa è tenuta a garantire. La legislazione in materia di tutela ambientale (come in tema di sicurezza del lavoro) si è evoluta ed evolve in conseguenza di tanti fattori, tra cui è prevalente l’apporto innovativo della tecnologia, ma non sono estranei anche gli aspetti economici che inducono a tener conto delle esigenze di gradualità con cui le attività produttive devono adeguare i loro standard di sicurezza, anche in rapporto alle esigenze di competitività in una economia globalizzata. All’ex Ilva furono sequestrati – come corpi di reato – prodotti finiti pronti ad essere imbarcati del valore di un miliardo. Con la stessa logica una qualunque procura potrebbe sentirsi autorizzata a sequestrare uno stabilimento automobilistico se le “centraline” rivelassero un livello eccessivo di inquinamento (anche in questo caso è previsto un livello minimo ritenuto tollerabile, superato il quale scattano le ordinanze sul traffico e sul riscaldamento delle città. Nel caso dell’ex Ilva la magistratura non volle mai limitarsi ad accertare se lo stabilimento avesse rispettato le norme vigenti e ottenuto le autorizzazioni previste dagli organi preposti alla vigilanza; poiché le emissioni inquinavano dovevano essere eliminate secondo il principio criminale del pereat mundus, iustitia fit. E proprio su questo punto i collegi giudicanti, in primo grado e in appello, hanno per ben due volte rimesso il rapporto produzione/salute/ambiente sui giusti binari.
Nella gestione dell’Ilva di Taranto da parte della famiglia Riva, tra il 1995 e il 2012, aveva scritto il Gup Lidia Castellucci nelle motivazioni dell’assoluzione in primo grado nel luglio 2019, la società ha investito “in materia di ambiente” per “oltre un miliardo di euro” e “oltre tre miliardi di euro per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti” e non c’è stato il “contestato depauperamento generale della struttura”. Contro questa sentenza la procura di Milano, che in primo grado chiese oltre cinque anni per Fabio Riva, aveva fatto ricorso in appello. Se i soldi trovati “nei trusts della famiglia Riva, alimentati con le risorse sottratte al gruppo”, avevano scritto i pm nel ricorso, fossero stati investiti “quantomeno in parte nell’adeguamento degli impianti alle crescenti esigenze di tutela ambientale, anziché andare ad impinguare le tasche dei Riva in modo occulto, la società non sarebbe incorsa nelle note vicissitudini amministrative e giudiziarie comunque connesse alla crisi del gruppo”. Il ricorso, però, non è stato condiviso in aula dal sostituto pg Gravina. Come hanno affermato i legali del collegio di difesa: “La famiglia Riva ha creato ricchezza per molti anni nel rispetto delle leggi. La sentenza riconosce questo ruolo. Oltre a rispettare i criteri ermeneutici”, la corte “ha rispettato anche la verità storica ovvero una verità diversa da quella prospettata dai pm di Milano”. Resta, poi, incomprensibile la guerra dichiarata ad Arcelor Mittal fin da quando fu negato ai suoi manager quello “scudo penale” riconosciuto prima agli amministratori straordinari ed ora a quelli che subentreranno nella gestione dell’ircocervo di Domenico Arcuri. Contro la multinazionale si è tentato di tutto, persino ad imporle contemporaneamente – tramite due diverse procure – una linea di condotta in un senso ed un’altra in senso contrario. Anche i sindacati hanno sempre evitato di denunciare i veri assassini dell’ex Ilva, accreditando le versioni della magistratura. Si vede – dicono a Genova – che ne avevano la convenienza: con l’acciaio di Stato la produttività, la competitività, i ricavi, i profitti diventano tutti optional.
Membro del Comitato scientifico ADAPT