Bollettino ADAPT 12 aprile 2021, n. 14
Il Centro Studi della Confindustria (CSC) ha presentato il tradizionale Rapporto sulle previsioni per l’anno in corso (e il 2022), dove si avvertono la presenza e l’influenza (non prevedibili) di un Convitato di pietra: la pandemia e gli effetti delle misure adottate dai governi per contenere la crisi sanitaria e mitigare le inevitabili ricadute sull’economia e il lavoro. Per quanto riguarda l’occupazione il Rapporto prende le mosse dallo scenario europeo e internazionale. Secondo il CSC, l’impatto sul mercato del lavoro europeo è più grave di quanto dicano i numeri sulla disoccupazione, sia per il labor hoarding senza precedenti (trattenimento di manodopera inutilizzata, soprattutto tramite riduzione di orari) sia per l’aumento degli inattivi (mezzo milione in più in Italia).
A differenza degli USA, la politica economica in Europa ha scelto di scongiurare aumenti eccessivi della disoccupazione, in primo luogo con il rafforzamento, anche con risorse comunitarie (tramite il SURE) dei programmi nazionali di sostegno al reddito dei lavoratori in caso di riduzioni dell’attività. In Italia – riconosce il CSC – si è avuta l’estensione praticamente illimitata della CIG, accompagnata dal blocco dei licenziamenti economici. Le differenze settoriali sono forti, anche a livello europeo: nei servizi di informazione e in quelli immobiliari l’input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, è tornato vicino ai livelli pre-crisi, mentre le perdite sono ancora molto ampie nell’alloggio e ristorazione e nell’arte e intrattenimento. Se parte della caduta della domanda si rivelasse strutturale, il calo delle ore lavorate potrebbe trasformarsi in un aumento della disoccupazione, specie a lungo termine. L’eterogeneità è forte anche per tipologia di lavoratori: il calo è più drammatico per i giovani e (in misura minore) per le donne, per i dipendenti a termine e per quelli a bassa qualifica. Per questi ultimi, in particolare, spesso occupati in mansioni che richiedono la presenza e il contatto fisico, risulta quasi impossibile il lavoro da remoto, reso necessario dalla pandemia.
I processi di automazione e digitalizzazione, accelerati dalla crisi, potrebbero tenere bassa la domanda per alcune tipologie di lavoro: l’80% dei datori di lavoro intende rafforzare la digitalizzazione e il lavoro a distanza e il 50% l’automazione del lavoro. Il rischio, quindi, è quello di una jobless recovery nei prossimi anni, su cui le policies devono intervenire. Le politiche del lavoro, allora, devono essere rimodulate allo scopo di aumentare l’occupabilità degli individui, compresi i lavoratori in CIG, i disoccupati, gli scoraggiati fuori dalla forza lavoro, e di facilitare la ricollocazione verso nuovi lavori e settori in espansione.
Del resto, come scrive il Rapporto, il lavoro segue il PIL. Nel 2020 i drammatici cali dei livelli di attività nella prima parte dell’anno, conseguenti alla crisi da Covid, così come il rimbalzo del terzo trimestre, si sono riflessi uno a uno sull’input di lavoro impiegato. In media d’anno, a fronte di una contrazione del PIL dell’8,9%, la domanda di lavoro è calata con un’elasticità anche oltre l’unità, date le chiusure prolungate di molte attività dei servizi ad alta intensità di lavoro: -10,3% in termini di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA) e -11,2% in termini di monte ore lavorate. A fare da cuscinetto alla perdita di posti di lavoro sono state, in particolare, un’ampia gamma di forme di riduzione degli orari, con limitati oneri aggiuntivi per le imprese. Cruciale è stato il ricorso massiccio e repentino a strumenti di integrazione al reddito da lavoro, in primis la CIG, che il Governo ha messo a disposizione in deroga alle regole che definiscono lo strumento ed estendendone l’accesso alla totalità di imprese e a quasi tutte le tipologie di lavoratori dipendenti. Il rimbalzo dei livelli di attività innescatosi dall’estate 2020 è stato accompagnato da un recupero di simile ampiezza dell’input di lavoro, ma per entrambi il divario rispetto ai livelli pre-crisi è rimasto ampio.
La seconda ondata di contagi, iniziata in autunno, ha compresso nuovamente l’attività, e con essa la forza lavoro impiegata. Il 2020 si è così chiuso con quasi 1,8 milioni di ULA in meno rispetto al quarto trimestre 2019. Il numero di persone occupate, dopo il calo nei primi due trimestri (-690mila unità tra febbraio e giugno), si era stabilizzato con la ripresa dell’attività (+77mila unità tra luglio e settembre), per poi tornare a contrarsi nell’ultima parte dell’anno. Nel quarto trimestre 2020 si registravano 770mila occupati in meno rispetto a fine 2019. La maggior parte del calo dell’occupazione ha coinvolto i lavoratori dipendenti a tempo determinato (-407mila): alla maggiore elasticità dell’occupazione temporanea al ciclo economico si aggiunge, in questa crisi, l’effetto del blocco dei licenziamenti economici. Nel 2021 l’andamento dell’input di lavoro utilizzato continuerà a seguire, pressoché uno a uno, quello del PIL: le ULA, quindi, dopo un sostanziale stallo nella prima metà dell’anno, risaliranno – secondo il CSC – nella seconda, seguendo la ripresa dell’attività, che si intensificherà in estate e proseguirà in autunno, se sostenuta da un ritmo della campagna vaccinale in linea con le attese.
L’aumento delle ULA (+3,8% in media nel 2021) sarà completamente trainato da un allungamento delle ore lavorate pro-capite (+6,3%), con il contemporaneo progressivo riassorbimento della CIG. Il numero di persone occupate, invece, è atteso in ulteriore calo. Gli ultimi dati ISTAT (diffusi il 6 aprile 2021) indicano che la contrazione dell’occupazione in corso a fine 2020 si è prolungata a gennaio (-0,8% su dicembre). Il blocco dei licenziamenti è prorogato a ottobre 2021 solo per i datori di lavoro destinatari della CIG in deroga o degli assegni del FIS o dei fondi di solidarietà, strumenti che possono essere utilizzati fino a dicembre 2021. Assumendo una sostanziale stagnazione dell’occupazione tra febbraio e aprile e poi una ripresa in concomitanza con la risalita del PIL, smorzata dagli inevitabili processi di ristrutturazione aziendale e ricomposizione settoriale che avranno luogo in uscita dalla crisi, la variazione del numero di persone occupate nel 2021 si attesterà al -1,7% (-389mila unità). Nel 2022, la risalita della domanda di lavoro è prevista un po’ meno intensa rispetto alla ripresa economica (+3,7% le ULA). Questa previsione sconta un rafforzamento della produttività oraria, coerente sia con una crescente digitalizzazione e automazione dei processi di lavoro, sia con una ricomposizione settoriale verso attività a più alta creazione di valore aggiunto, compatibile con una duratura riduzione del peso nell’economia italiana di alcuni servizi ad alta intensità di lavoro. La dinamica dell’occupazione risentirà in parte di queste ricomposizioni, con conseguente necessità di ricollocamento per una parte della forza lavoro, ma risulterà nel complesso positiva: si stima che in media nel 2022 il numero degli occupati aumenterà dell’1,4% (+313mila unità) con ampie differenze tra i settori.
Il tale scenario quali politiche per il lavoro sono indicate come necessarie? Secondo il CSC anche se l’emergenza sanitaria non è finita, è cruciale che le politiche pubbliche, incluse quelle per il lavoro, siano sempre più orientate a sostenere la ripresa economica, rispetto a un’ottica emergenziale che necessariamente ha prevalso nelle prime fasi dallo scoppio della pandemia. In Italia, in particolare, le politiche per il lavoro necessitano di essere fortemente rimodulate all’obiettivo di aumentare l’occupabilità degli individui, sia di quelli che sono stati finora trattenuti presso il proprio posto di lavoro grazie alle estensioni della CIG, sia di quelli che hanno perso il lavoro durante questa crisi e sono andati ad aumentare le fila dei disoccupati o il già ampio bacino degli inattivi, ovvero coloro che un lavoro non lo cercano, in qualche caso perché scoraggiati dalle difficoltà di trovarne uno. Ciò implica – secondo il Rapporto – il rafforzamento delle politiche attive per il lavoro, quelle volte a favorire i processi di inserimento e ricollocazione al lavoro, che in Italia sono storicamente poco finanziate, poco diversificate e ancora troppo poco coordinate a livello nazionale, nonostante gli svariati sforzi di riforma nell’ultimo decennio.
Dal confronto con altri paesi europei, l’Italia può ricevere – secondo il CSC – alcune importanti lezioni sulle scelte da intraprendere nel rimodulare le politiche per il lavoro, sia per rafforzare l’uscita da questa crisi sia per affrontare debolezze strutturali che affliggono il nostro mercato del lavoro. Lo sforzo europeo, rivolto a preservare posti di lavoro, è stata una strategia efficiente in risposta allo scoppio dell’emergenza sanitaria, che ha imposto una fase transitoria di sospensione forzata delle attività lavorative. Evitando gli esuberi, infatti, si sono preservati anche la capacità produttiva e il capitale umano delle imprese e dell’economia nel suo complesso, rendendo il sistema immediatamente pronto a cogliere la ripartenza: come in effetti è avvenuto nel terzo trimestre 2020, con un allungamento immediato degli orari di lavoro di pari passo alla ripresa dei livelli di attività.
Con l’allungarsi della crisi i governi non possono sostenere l’occupazione e i salari per un periodo prolungato. Il capitale e i lavoratori dei settori e delle imprese danneggiati dovranno spostarsi verso quelli in espansione. Tali transizioni sono difficili e raramente si verificano abbastanza velocemente da impedire l’aumento dei fallimenti e delle ristrutturazioni aziendali. Le politiche economiche devono quindi accompagnare la transizione, consentendo rapidi processi di ristrutturazione delle imprese, fornendo reddito ai lavoratori tra un lavoro e l’altro, e formazione alla manodopera in esubero e in transizione verso nuovi posti di lavoro.
Membro del Comitato scientifico ADAPT