Bollettino ADAPT 6 dicembre 2021, n. 43
Ci azzardiamo a parlare di un argomento che resta ai margini del dibattito perché creerebbe problemi alla semplicità della narrazione corrente. Nell’Italia dei disoccupati, dei poveri impoveriti, dei precari, dei “diseguali”, degli scoraggiati, degli stipendi da fame, del lavoro nero, vi sono dei posti di lavoro che aspettano, sovente a lungo, che arrivi qualcuno ad occuparli. E sono pertanto “vacanti”. Che cosa si intende per posti vacanti? Secondo l’Istat la definizione prende a riferimento le ricerche di personale che nell’ultimo giorno del trimestre considerato, sono iniziate e non ancora concluse. In altre parole, i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Mentre il tasso di posti vacanti è il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di questi ultimi con le posizioni lavorative occupate. Tale indicatore – spiega l’Istituto – può fornire informazioni utili per interpretare l’andamento congiunturale del mercato del lavoro, dando segnali anticipatori sul numero di posizioni lavorative occupate. Nel terzo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato – per il totale delle imprese con dipendenti – si attesta all’ 1,8%; lo stesso valore si registra per le imprese dei servizi e sale all’1,9% per quelle dell’industria. Il confronto con il trimestre precedente segnala un incremento nell’industria (+0,3 punti percentuali) e un decremento nei servizi (-0,2 punti percentuali). Con la precisione che caratterizza un Istituto di statistica, l’Istat precisa che si tratta di stime preliminari che potranno essere riviste in occasione della pubblicazione del 13 dicembre 2021, anch’essa relativa al terzo trimestre 2021, contenente un insieme più ampio di dati sui posti vacanti, mentre le stime preliminari riferite al quarto trimestre 2021 sul tasso di posti vacanti nell’industria e nei servizi saranno pubblicate on line il 17 febbraio 2022.
TASSO DI POSTI VACANTI NEL TOTALE IMPRESE
I trimestre 2016 – II trimestre 2021, dati destagionalizzati, valori percentuali
TASSO DI POSTI VACANTI NELLE IMPRESE CON ALMENO 10 DIPENDENTI
I trimestre 2010 – II trimestre 2021, dati destagionalizzati, valori percentuali.
I grafici Istat mettono in evidenza che i posti vacanti nel periodo considerato dell’anno in corso – sia nel complesso delle imprese sia in quelle con più di 10 dipendenti – hanno raggiunto un tasso il più elevato degli ultimi anni e soprattutto dell’ultimo decennio, peraltro con una vera e propria accelerazione rispetto all’annus horribilis del 2020. I posti vacanti sono un fenomeno fisiologico del mercato del lavoro. Entro certi limiti, tuttavia, che possono essere cifrati intorno all’1%. Ma l’1,8% è tutta un’altra musica, soprattutto dopo una crisi produttiva come quella imposta dalle restrizioni dello scorso anno e un blocco dei licenziamenti durato – con varie proroghe – circa 500 giorni. Un altro aspetto importante riguarda l’arco temporale estremamente breve in cui si verifica questa accelerazione. Come fa notare l’Istat nel secondo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato – per il totale delle imprese con dipendenti – si attesta all’1,3% nel complesso delle attività economiche, all’1,4% nell’industria e all’1,6% nei servizi. Il confronto con il trimestre precedente mostra un incremento più marcato nei servizi (+0,5 punti percentuali) e più debole nell’industria (+0,2 punti percentuali).
Se l’Istat, custode dei dati nazionali, parla ex cathedra, vi sono altre ricerche e stime che insistono nel rappresentare la realtà di un Paese, profondamente diversa da quella che ci troviamo raccontata nei talk show. È vero, ad esempio, che in Italia vi siano circa 1 milione di posti di lavoro lasciati scoperti? In altre parole, le aziende vorrebbero assumere figure talvolta altamente specializzate che però non riescono a trovare sul mercato. Questi dati sono i sono stati sviluppati sulla base dell’Indagine Excelsior – Unioncamere e Anpal, pubblicata il 16 settembre: nella fotografia scattata dagli esperti sul mondo dell’occupazione nel nostro Paese c’è da un lato una situazione favorevole, con numero di contratti in crescita nel mese in corso, circa 20mila in più rispetto allo stesso mese del 2018, con un incremento di 4,8 punti percentuali da parte soprattutto delle imprese del comparto industriale e terziario, dall’altro le difficoltà da parte delle stesse nel reperire le figure professionali richieste. Come ha giustamente precisato Francesco Seghezzi, intervistato da Fanpage: “Prima di tutto questi risultati non si devono prendere per oro colato, dal momento che sono il frutto di questionari che le aziende compilano con desiderata specifiche, talvolta non tenendo conto del mercato del lavoro. E poi non bisogna dimenticare che oggi il rapporto tra mondo della formazione e imprese è diventato complicato. Serve più formazione e soprattutto serve che le aziende collaborino in maniera più incisiva e continuata con gli enti di formazione. L’incontro tra questi soggetti deve avvenire prima per poter allineare tutte le competenze”. “In Italia – ha concluso Seghezzi – mancano i servizi indispensabili per un passaggio facile dalla scuola al lavoro. La prima ha al momento troppi limiti ed è difficile che riesca a formare a 360 gradi tutte le figure specializzate che le imprese chiedono. Sono quest’ultime che devono intervenire e concludere in un certo senso il percorso formativo. Per cui credo che la soluzione a questa situazione sia che scuola e mondo imprenditoriale comincino a dialogare prima, magari potenziando l’alternanza scuola-lavoro o incentivando l’orientamento e la pratica in azienda. Misure, queste, che nel nostro Paese sono ancora poco utilizzate”.
Poi – mentre erano attesi milioni di licenziamenti – il Ministero del lavoro ha annunciato che in prevalenza i lavoratori non vengono “cacciati con un sms” (anche gli statisti ormai comunicano così), ma presentano un brava lettera di dimissioni: “La crescita dei rapporti cessati riguarda tutte le cause di cessazione: tra queste l’aumento maggiormente significativo – scrive il Lavoro – è costituito dalle Dimissioni (pari a 85,2%) mentre una crescita più contenuta si registra nei Pensionamenti (+2,0%) nelle Altre cause (+12%) e nei licenziamenti (+17,7%, pari a +17 mila)”.
È comunque una realtà la nostra che va presa con le molle, perché questi dati contraddicono altre statistiche come quelle della disoccupazione, giovanile e femminile in particolare, e dei c.d. inattivi. Sembra che il mercato del lavoro in Italia si muova in un labirinto degli specchi all’interno del quale la domanda non riesce ad incontrare l’offerta. È necessario però che le c.d. parti sociali insieme con le istituzioni preposte concentrino la loro attenzione su ambedue le facce della stessa medaglia: le aziende cercano lavoratori che non riescono a trovare; i giovani lamentano di non trovare un’occupazione adeguata; ogni azienda che chiude o licenzia diventa per i sindacati una sorta di “linea del Piave” da difendere a tutti i costi, tanto che non “guasterebbe”, a loro avviso, resuscitare il “mostro” del blocco dei licenziamenti. La situazione è confusa e complessa. Ma – dispiace dirlo – anche il governo non è sul pezzo. Non lo è perché non può il reddito di cittadinanza rimanere al centro di ciò che ha fallito (e non poteva che essere così) ovvero la promozione delle politiche attive, quando tutti concordano ormai che la platea dei beneficiari è difficilmente occupabile. Non può essere un riordino degli ammortizzatori sociali come quello contenuto nel ddl bilancio ad accompagnare un salto di qualità nelle politiche attive. Non lo diciamo noi, ma la Banca d’Italia nell’audizione in Commissione Bilancio del Senato: “Complessivamente, nel confronto con le altre principali economie europee, gli interventi previsti nel disegno di legge di bilancio accentuano il maggiore peso relativo assegnato in Italia agli strumenti di integrazione salariale rispetto agli ammortizzatori in caso di disoccupazione, soprattutto per le risorse aggiuntive destinate alla Cassa integrazione straordinaria. Gli interventi tendono a rafforzare – qui casca l’asino, ndr – le tutele dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato più che quelle dei lavoratori a termine, nonostante che la crisi pandemica abbia confermato che sono questi ultimi – spesso giovani e donne – a subire le conseguenze più gravi degli episodi recessivi”.
Infine, è un atto da sprovveduti agitare davanti ai possibili investitori esteri il drappo rosso del decreto contro le delocalizzazioni e le chiusure di aziende a capitale straniero.
Membro del Comitato scientifico ADAPT