Politically (in)correct – Great resignation o ritorno dei “figli dei fiori”?

Bollettino ADAPT 31 gennaio 2022, n. 4

 

Sono tornati i “figli dei fiori”? Sembrerebbe di sì. Oggi si parla, infatti, del fenomeno delle “grandi dimissioni”, attribuendovi un significato esistenziale, prima ancora che sociale ed economico (come sarebbe corretto visto che si tratta pur sempre di rapporti di lavoro). I “figli dei fiori” esprimevano un umanesimo pacifista per sottrarsi all’incubo della guerra nucleare che aveva ossessionato i loro padri (“mettete dei fiori nei vostri cannoni”) e predicavano l’amore e la fratellanza, sublimate dal ritmo dei grandi concerti di musica rock, senza l’ossessione del denaro e del lavoro. La libertà era un viaggio verso una destinazione ignota perché si svolgeva non solo sulla strada, ma all’interno della coscienza di ciascuno. («Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.
Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare» (Jack Kerouac, On the Road,).

 

La vita si svolgeva tutta in quella corsa alla ricerca di una comunità che si riconosceva in un modello di esistenza scandita giorno dopo giorno. Anche adesso si è voluto mitizzare – prima ancora di comprenderne le ragioni – un imprevisto boom di dimissioni (si attendevano, infatti, centinaia di migliaia di licenziamenti) come una reazione alla pandemia “venuta dal freddo” che ha minacciato l’intera umanità. Le persone – è questa la narrazione che ha fatto subito breccia tra i sociologi e i cacciatori di farfalle – hanno capito che cosa è importante nella vita, come godersi gli affetti familiari e prendere tempo per sé, fuggendo il più possibile lontano dal lavoro, che è tornato ad essere una sorta di maledizione biblica attraverso la quale scontare il peccato originale della disobbedienza al Signore (“guadagnerai il pane col sudore della fronte”). E il fenomeno ha dimensioni planetarie: “In tutte le economie avanzate, dopo il Covid, c’è un boom di dimissioni volontarie dai posti di lavoro: negli Stati Uniti ha mollato, in un mese, il 2,9% della forza lavoro, e in Italia la curva dei dimissionari si è impennata. Perché? In un secolo in cui si è dimesso perfino il Papa, – ha scritto il Corriere della Sera – il gesto più contemporaneo di tutti sembra proprio questo: mollare”.

 

È dagli Stati Uniti (avrebbe potuto essere diversamente?) che prende le mosse quella che è stata definita la Great Resignation o in alternativa il Big Quit. La tendenza a rassegnare le dimissioni dal lavoro coinvolge un numero rilevante di persone. I numeri reali sono difficili da capire, ma diverse rilevazioni indicano 4-5 milioni di persone. Anche in Europa pare che il fenomeno stia emergendo con conseguenti difficoltà crescenti delle imprese non solo a trovare lavoratori, ma a trattenere i loro dipendenti. Alle “grandi dimissioni’’ si sono interessati anche gli psicanalisti, arrivando (come i virologi ai primi tempi del covid-19) a conclusioni simili a quella che segue: “Risulta interessante però notare che uno dei motori più rilevanti della società capitalistica, costituito dall’avidità di denaro e dalla bramosia di sempre maggiori averi, risulta inceppato per numeri consistenti di persone. Molti giovani non sono più disposti, come avveniva in passato, a lavorare tutto il giorno per comprare la seconda casa al mare o in montagna o l’auto di grossa cilindrata. Preferiscono una vita meno dispendiosa che però permetta di avere del tempo libero da dedicare alle attività che si considerano creative e a misura d’uomo’’.

 

In questo momento storico, complice presumibilmente la pandemia, il lavoro – aggiungono – appare come un giogo al quale ci si assoggetta solo se non ci sono alternative. Il sogno individuale non pare più quello di svolgere un mestiere “appagante”, ma piuttosto quello di esprimere la propria creatività senza vincoli lavorativi e prescindendo dalle valutazioni economiche. Anche l’Associazione dei dirigenti del personale (AIDP) si è occupata del fenomeno attraverso una indagine condotta ed elaborata dal proprio Centro Studi e Ricerche, nella quale sono state coinvolti 600 aziende. “Il 60% delle aziende è interessata – è scritto nel report – dal fenomeno delle dimissioni volontarie e nella maggior parte dei casi (il 75%) sono state colte di sorpresa rispetto a una tendenza inattesa. Le fasce d’età maggiormente coinvolte riguardano i 26-35enni che rappresentano il 70% del campione, seguita dalla fascia 36-45 anni. Si tratta quindi di un fenomeno giovanile collocato soprattutto nelle mansioni impiegatizie (l’82%) e residenti nelle regioni del Nord Italia, (il 79%)”. Quali sono i motivi più rilevanti, emersi nell’indagine, della “grande fuga”?:  la  ripresa del mercato del lavoro (48%), la ricerca di condizioni economiche più favorevoli in altre aziende (47%) e l’aspirazione a un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%).  Sono queste le tre ragioni principali alla base della crescita esponenziale delle dimissioni seguite, subito dopo, dalla ricerca di maggiori opportunità di carriera (38%). Da segnalare che il 25% degli esodati volontari ha dichiarato di essere alla ricerca di un nuovo senso di vita e che il 20% ha imputato a un clima di lavoro negativo interno all’azienda la ragione delle dimissioni. Per il 57% dei direttori del personale il fenomeno è la dimostrazione di quanto sta cambiando la percezione che le persone hanno del senso del lavoro e per il 30% di quanto, invece, stia cambiando il mercato del lavoro. Circa l’88% delle aziende coinvolte ha dichiarato che non hanno in atto un piano di incentivo all’esodo, mentre il restante 12% ha in essere piani di incentivazione all’uscita anche con prepensionamenti.
 

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Fonte – Dati INPS

 

Per quanto riguarda i lavoratori a tempo indeterminato, nel secondo nel terzo trimestre 2021, la quota di cessazioni motivata da dimissioni volontarie è stata decisamente più alta di quella che si riscontrava nello stesso periodo del 2018 o del 2019. Si è arrivati intorno al 70%, contro valori pre-pandemia inferiori al 60%. Per quanto riguarda i contratti a termine, le dimissioni hanno superato il 15-16% di tutte le risoluzioni, mentre prima erano tra l’11% e il 14%. Il caso è davvero singolare anche perché – ad iniziativa della controparte – nel contratto a termine è possibile soltanto il licenziamento per giusta causa (ex articolo 2119 c.c.). Nelle scorse settimane ha sollevato attenzione, curiosità e polemiche la pretesa di un datore di lavoro di inserire una penale di mille euro, nel caso in cui il giovane assunto si fosse dimesso prima del termine stabilito nel contratto. Accantonando per un momento la discussione sulla legittimità di tale iniziativa, sarebbe il caso che anche i sindacati prendessero nota delle difficoltà che, soprattutto in alcune aree del Paese, le aziende incontrano per trovare manodopera; non solo quella adeguata alle proprie esigenze produttive, ma in assoluto.

 

Una nota di maggiore conforto – ad avviso di chi scrive – viene da un recente articolo su lavoce.info, a firma di Francesco Armillei. L’aumento delle dimissioni è trainato principalmente dagli uomini (la componente forte del mercato del lavoro, ndr), rispetto alle donne. Ed è interessante vedere come dal 2019 al 2021 l’aumento percentuale salga al crescere dell’età al momento della dimissione del lavoratore. Rispetto però alla composizione anagrafica della platea dei dimessi, il peso delle varie categorie d’età sul totale è abbastanza equivalente. Per quanto riguarda invece il titolo di studio, l’aumento è maggiore per chi possiede almeno un titolo di studio terziario; ma la differenza non è eccessiva e il peso maggiore sul totale è invece dei lavoratori con un diploma di scuola superiore.

 

Quanto alla tipologia del contratto cessato, l’autore sottolinea che il +55 % delle dimissioni avviene tra chi aveva un contratto attivo da 2-3 anni (nel 2021, quindi iniziato prima della pandemia). Irrilevante invece la crescita delle dimissioni tra coloro che hanno contratti attivati da poco tempo (ossia, guardando al 2021, contratti avviati durante la pandemia). Altro dato interessante è il grandissimo incremento delle dimissioni da contratti a tempo determinato, che crescono di oltre il 20 % e pesano per oltre la metà del totale. Questo fenomeno smentisce, secondo l’articolo, la lettura costruita in questi mesi del “lascio il posto fisso e cambio vita”. In particolare nel settore delle costruzioni si registra un +52 % di dimissioni; il che da solo spiega il 28 % dell’aumento totale. Probabilmente, spiega l’autore, il dato ha poco a che fare con la pandemia e molto più con “un mercato distorto dei bonus governativi”.  Importanti sono poi le dimissioni nel settore manifatturiero e in quello della sanità. Infine, osservando la scomposizione dei dati per professione (secondo la classificazione delle professioni Istat), la categoria più numerosa è quella delle professioni non qualificate (che include per esempio braccianti, bidelli, lavapiatti e simili), seguita da quella degli artigiani e operai specializzati.

 

Concludendo, Francesco Armillei ammette che non è semplice fornire una lettura d’insieme dei dati. Sicuramente a suo avviso le statistiche suggeriscono cautela nello sposare interpretazioni relative a un cambio radicale di attitudini nei confronti del lavoro da parte dei lavoratori, mentre ridimensionano l’idea di dimissioni trainate da profili qualificati che decidono di “cambiare vita”, così come l’idea che il fenomeno interessi prevalentemente i giovani o chi ha un “posto fisso”.

A chi scrive – arrivato, nella sua lunga esistenza, alle stesse conclusioni di Candide (si vive sempre nel migliore dei mondi possibili) – fa piacere osservare che siano in corso processi di cambiamento, alla ricerca di una vita migliore, più corrispondente alle aspettative delle persone. Guai però a dimenticare che nessun pasto è gratis.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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